da una proiezione antropomorfa da non poter rientrare in una seria ricerca sperimentale.
Si obiettava che in fondo l’unico modo di accertare se un essere organico sia o meno cosciente – ossia in grado di fornire una relazione sul proprio stato introspettivo – sarebbe chiederglielo, oppure che la distanza filogenetica dall’uomo non autorizza l’attribuzione di una valenza simbolica a comportamenti come la danza scodinzolante delle api. La coscienza animale sembrava collocata senza speranza all’ultimo posto nel gradiente di accettabilità in campo etologico. Controargomentando via via, e sgretolando presupposti giudicati incrollabili, innanzi tutto la differenza qualitativa tra comunicazione umana e animale, Griffin opta per una calibratura estensiva e operativa del suo oggetto di studio: si concentra su immagini mentali, intenzioni, consapevolezza di cose e relazioni, ne rileva il carattere adattivo e intravvede la direzione più proficua nell’esplorare la somiglianza delle funzioni neurali degli organismi pluricellulari. Grazie alla sua lungimiranza, oggi esiteremmo a sottoscrivere l’affermazione di Wittgenstein: «Se un leone fosse in grado di parlare, noi non potremmo capirlo».
