Antropologo e psichiatra, Roberto Beneduce è stato partecipe e testimone di mutamenti profondi nel corso degli ultimi trent’anni. Le sue ricerche restituiscono ai dogon una voce resistente e inquieta: racconti di guaritori e migranti, di malati e divinatori, che parlano da un luogo segnato dalla violenza, dai conflitti per la terra, dalla guerra e dalle nuove mappe della migrazione. La follia, le terapie rituali, i sogni e i silenzi si intrecciano in un racconto che mentre dissolve la presunta unità della cultura dogon scava nella crisi e ripensa la cosiddetta «medicina tradizionale» come dispositivo di cura e, allo stesso tempo, di memoria e riscatto.
Contro l’antropologia di «secondo grado» già denunciata da Jean-Loup Amselle, e in dialogo con il pensiero di de Martino e Lévi-Strauss, Beneduce propone un’etnografia che non si accontenta più di interpretare simboli o rituali, ma si lascia attraversare dalla storia e dall’ascolto. Il suo progetto è scrivere con i dogon, non più su di loro, e costruire insieme strategie di conoscenza anziché accontentarsi di rappresentare l’altro da una distanza sicura. Le silhouette dei dogon, per anni prigioniere dei musei e dei cliché etnografici, tornano a muoversi come soggetti di memoria e di trasformazione.
Il rancore del tempo è un’etnografia che interroga i suoi stessi strumenti e si fa gesto politico: per restituire complessità a vicende dimenticate, per non mascherare il dolore della storia, e continuare a raccontare – con rigore e rispetto – ciò che resiste e pulsa nell’ombra.
