Perché gli scienziati possono non essere tutti d’accordo

di Redazione | 22.01.2021

In quest’ultimo anno abbiamo sentito molto parlare del metodo scientifico, che viene interpretato dalla maggioranza come un insieme di criteri, di modalità operative condivise, all’interno delle quali opera la comunità scientifica. Con l’avvento della pandemia da covid-19 questo argomento è stato oggetto di riflessioni e polemiche, molta parte dell’opinione pubblica pone l’accento sull’apparente discordia tra […]


In quest’ultimo anno abbiamo sentito molto parlare del metodo scientifico, che viene interpretato dalla maggioranza come un insieme di criteri, di modalità operative condivise, all’interno delle quali opera la comunità scientifica.

Con l’avvento della pandemia da covid-19 questo argomento è stato oggetto di riflessioni e polemiche, molta parte dell’opinione pubblica pone l’accento sull’apparente discordia tra membri ugualmente autorevoli della comunità scientifica.
Ma cosa si intende per metodo scientifico? Pochi sanno che dietro a questa parola c’è una storia, che è prima di tutto storia di un pensiero.
Naomi Oreskes, nel suo saggio Perché fidarsi della scienza, ricostruisce meticolosamente questa parte di filosofia della scienza, che può aiutarci a comprendere anche il mondo di oggi.

Perché fidarsi della scienza

Naomi Oreskes, Perché fidarsi della scienza



 

COMTE E IL POSITIVISMO

[Foto: https://it.wikipedia.org/wiki/Auguste_Comte]

Nel corso del XVIII e all’inizio del XIX secolo, la maggioranza degli studiosi identificava l’autorità della scienza con l’autorità di chi la metteva in pratica.
L’affidabilità delle ricerche scientifiche era direttamente proporzionale alla stima che la comunità riponeva in chi le portava avanti.
Ma verso la metà del XIX secolo si assistette a un importante cambiamento, dovuto in gran parte all’opera di Auguste Comte (1798-1857), ritenuto il fondatore della sociologia, della filosofia della scienza nella sua forma odierna e della corrente filosofica nota come positivismo.
La peculiarità del suo pensiero, come ricorda Oreskes, è la sua dedizione all’idea di un sapere positivo. Soltanto la scienza, secondo il filosofo, era in grado di procurare una conoscenza positiva, vale a dire attendibile. L’idea persiste nelle nostre convenzioni linguistiche. In inglese, per esempio, se qualcosa è positive, significa che è assodato.
Comte riteneva che l’elemento chiave nel concetto di sapere positivo fosse il metodo, che opponeva alla dottrina (religiosa, superstiziosa o metafisica).
Applicando il metodo alla ricerca del sapere, la scienza aveva il potenziale di liberare uomini e donne dalle catene della religione e della superstizione. In generale, la direzione del progresso andava dalla teologia alla scienza, passando per la metafisica come transizione necessaria.
Nello «stadio positivo» dello sviluppo umano, la teologia e la metafisica vengono sostituite dal ragionamento scientifico.

IL PROBLEMA DEL CIGNO NERO – POPPER

[Foto: https://it.wikipedia.org/wiki/Karl_Popper]

Karl Popper (1902-94) negò che il metodo della scienza fosse l’induzione. In secondo luogo, sostenne che a distinguere la scienza dalle altre forme di attività umana non erano le sue pratiche, ma il suo comportamento: i grandi scienziati sono riconosciuti per l’atteggiamento critico, il loro modus operandi è incentrato su scetticismo e dubbio.
Popper ribadì più volte che l’obiettivo della scienza non è provare le teorie, ma confutarle. Introdusse quindi l’ormai celebre nozione di falsificabilità, concludendo che a differenziare un’affermazione scientifica da una non scientifica non è l’esistenza di una qualche osservazione tramite la quale l’affermazione può essere verificata, ma l’esistenza di un’osservazione tramite la quale può essere confutata.
Infatti, secondo Popper, non esiste alcuna regola induttiva razionale. Si tratta di quello che oggi chiamiamo «problema del cigno nero». Io posso aver visto cento, mille o diecimila cigni, e aver visto che erano tutti bianchi. Ne concludo quindi che tutti i cigni sono bianchi. Eppure, capita che un giorno mi rechi a Perth, in Australia, e veda un cigno nero. È chiaro allora che le osservazioni, per quanto estese e comprensive, non possono provare la veridicità di una teoria.
Dietro l’angolo (o agli antipodi) potrebbe nascondersi qualcosa che la confuterà.
Se la scienza deve essere un’impresa razionale, il suo metodo non può essere l’induzione.
Tuttavia, l’aver visto il cigno nero prova effettivamente che la mia induzione iniziale era falsa, quindi esiste una logica della confutazione: la verificazione è, per forza di cose, provvisoria, mentre la falsificazione può essere conclusiva.
Sapendo questo, in quanto scienziato non dovrei andare in cerca di osservazioni che confermino la mia teoria, ma di osservazioni che possano confutarla. In altre parole, l’attività cruciale consiste nel formulare congetture e ricercare osservazioni specifiche in grado di confutarle. Per questo definì il suo approccio «razionalismo critico».

FLECK – SCIENZA COME ATTIVITÀ COLLETTIVA

Ludwik Fleck (1896-1961) un microbiologo che pose al centro della sua analisi le interazioni sociali all’interno della ricerca scientifica, rappresentò un altro punto di svolta. A lui si attribuisce lo sviluppo della prima descrizione sociologica moderna del metodo scientifico. Nel suo lavoro del 1935, Genesi e sviluppo di un fatto scientifico. Per una teoria dello stile e del collettivo di pensiero, spostò l’attenzione sulle comunità di scienziati, suggerendo che i fatti scientifici fossero il risultato raggiunto collettivamente da tali comunità. Così facendo, introdusse per primo l’analisi delle interazioni sociali che danno origine ai fatti scientifici.
Secondo gli studiosi, però, la sua opera venne influenzata soprattutto dalla sua esperienza di ricercatore.
Il concetto alla base della sua teoria era che gli scienziati operavano all’interno di comunità in cui gli stili di pensiero diventavano risorse condivise per il futuro lavoro, compresa l’interpretazione delle osservazioni. Definiva queste comunità «collettivi di pensiero». Senza un collettivo di pensiero, la scienza non poteva esistere.
Il termine «collettivo di pensiero» potrebbe evocare lo spettro della polizia orwelliana, e Fleck riconosceva che i collettivi potevano essere conservatori.
Tuttavia un collettivo poteva anche essere democratico e progressista, ed era questa la chiave per comprendere la scienza. A differenza di molte religioni europee, infatti, la scienza ha un carattere democratico: tutti i ricercatori possono parteciparvi in maniera equa e, mediante interazioni reciproche, affinare e modificare il quadro d’insieme.

DUHEM – QUINNE

[Foto: https://it.wikipedia.org/wiki/Pierre_Duhem]

Pierre Duhem (1861-1916) è noto alla comunità scientifica in quanto fondatore della termodinamica chimica, ma fu anche uno storico meticoloso e un acuto filosofo della scienza.
I filosofi e gli storici della scienza odierni lo ricordano soprattutto per via del suo libro del 1906, La teoria fisica. Il suo oggetto e la sua struttura.
La sua tesi principale era semplice: se un esperimento fallisce, le cause possono essere molteplici, quindi non è detto che sappiamo cosa sia andato storto. Viceversa, se il test sperimentale di una teoria dà buoni risultati, altre conseguenze previste dalla stessa teoria potrebbero comunque rivelarsi errate. In linea di principio, il sostegno a una teoria deve includere tutti i potenziali test e per la sua confutazione si devono prendere in considerazione tutti i possibili elementi che erano stati necessari a eseguire l’esperimento all’inizio.
Per dirla in parole povere: qualunque test di un’ipotesi è al contempo un test dell’ipotesi specificamente considerata, dell’organizzazione dell’esperimento, delle ipotesi ausiliarie e dei presupposti di fondo.
È impossibile, sosteneva senza possibilità di equivoci, «costruire una teoria con il metodo puramente induttivo». Teoria ed esperimento hanno entrambi un ruolo nella scienza e sarebbe un errore considerare il secondo più importante della prima, individuarvi le sue fondamenta e, soprattutto, considerarlo l’arbitro definitivo.
Fu però Quine a riprendere le tesi di Duhem, sostenendo che la conoscenza fosse in effetti una rete di credenze. Con le parole di Quine: «le nostre asserzioni sul mondo esterno affrontano il tribunale dell’esperienza sensibile non individualmente, ma soltanto come un corpo unico».

E si arriva infine alla teoria di Kuhn
File:Thomas Kuhn.jpg
[Foto: https://en.wikipedia.org/wiki/File:Thomas_Kuhn.jpg]

Thomas Kuhn (1922 – 1996) entrò nella discussione sfidando gli empiristi sul loro stesso terreno, sostenendo cioè che non si erano accostati alla scienza in maniera sufficientemente empirica.
Kuhn si dedicò con grande impegno anche alla filosofia della scienza e aveva letto sia Fleck, sia Quine.
Uno degli elementi portanti della sua Struttura delle rivoluzioni scientifiche era lo stesso già proposto da Fleck: gli scienziati non lavorano da soli, ma in comunità che condividono non soltanto teorie sulla realtà empirica ma anche valori e credenze relativi al modo in cui la loro scienza dovrebbe operare.
Per la maggior parte del tempo, gli scienziati non mettono in dubbio questi paradigmi, ma agiscono al loro interno, risolvendo i problemi e rispondendo alle domande che quel modello giudica rilevanti. Kuhn definì questa attività «scienza normale». Al contrario di quanto avrebbe voluto Popper, nella scienza normale gli scienziati non tentano di confutare il paradigma.
In effetti, non lo mettono neanche in discussione, almeno finché non sorge un problema. I problemi emergono perché qualche osservazione non corrisponde alle aspettative.
Kuhn le chiama «anomalie». All’inizio gli scienziati tenteranno di spiegare l’anomalia all’interno del paradigma, magari apportandovi qualche lieve modifica. Se però l’anomalia diventa troppo grande o evidente si crea una crisi. Talvolta le crisi vengono risolte entro i confini del paradigma, ma, quando non è possibile, si ha una rivoluzione scientifica: il paradigma dominante viene rovesciato e sostituito da un altro. Kuhn ipotizzò così che la scienza progredisca non per verificazione o confutazione, ma per slittamento del paradigma e cioè che i paradigmi che si susseguono siano fra loro incommensurabili.
In tal modo Kuhn intendeva letteralmente negare l’esistenza di un criterio di valutazione universale e unico in base al quale confrontare il nuovo paradigma con quello precedente.

Questo ampliava ulteriormente la portata dell’interrogativo di Quine: come decidono gli scienziati quale parte della loro struttura di credenze va rivista alla luce di un’anomalia?
Come decidono se è sufficiente un piccolo aggiustamento o se invece si è alle porte di una rivoluzione scientifica?
E se il nuovo paradigma è incommensurabile rispetto a quello che si propone di sostituire, su che base gli scienziati scelgono di accettarlo?
Da allora, storici e filosofi hanno continuato a discuterne.

Naomi Oreskes prosegue poi l’interessante carrellata storica parlando di sociologia del sapere scientifico, “relativizzazione” del metodo scientifico e pluralismo dei metodi (Feyerabend e Latour), fino ad arrivare alla fiducia informata nelle conclusioni consensuali della comunità scientifica.

Perché fidarsi della scienza è insomma un vademecum completo per affrontare criticamente il presente e opporsi con strumenti adeguati alle fake news che invadono quotidianamente la comunicazione in ambito scientifico. Vi aspettiamo in libreria il 28 gennaio.