"Ho ascendenze non soltanto italiane ma l’italiano è la mia lingua, e la mia lingua è la mia patria. Per il resto, alle convenienze ho sempre anteposto le convinzioni. Non amo il caffè. Non amo il calcio. E sono così dandy da essere ordinario. Come posso, pertanto, dirmi italiano? Però, sì, invece lo sono. Anche se vivo come straniero in un tempo che non è il mio… Il mondo ritorna verso un modello che si identifica con il peggio della prima metà del Novecento...". Come scrive Giovanni Nucci, che firma questa ricca intervista, Hans Tuzzi (classe '52) è "autore ambivalente, persona sfaccettata e polimorfa, sembra quasi un personaggio dei suoi stessi libri". In libreria con "Colui che è nell'ombra", una saga familiare "gotica", lo scrittore si racconta a tutto campo. Spazio a domande sulla letteratura e sulla scrittura, e per qualche ammissione ("il mio maggior difetto? Una certa facilità al disprezzo, che oltretutto non so nascondere"; "credo nel sacro, non nelle religioni. Ma il sacro è sovrumano, e spesso è terribile..."; "una lettrice mi ha definito «meravigliosamente al di là del presente»: confesso che ne vado fiero").
Hans Tuzzi è autore ambivalente, persona sfaccettata e polimorfa, sembra quasi un personaggio dei suoi stessi libri.
Potresti incontrarlo a passeggio per Milano e quindi avere modo di conoscere la sua squisita ospitalità, ma non saprai mai, alla fine dei conti, chi avrai incontrato, chi davvero ti avrà offerto la colazione… intendo dire: l’autore di quale libro? Il saggio, il giallo, il criminale – ammesso che un uomo possa essere al contempo saggio, “giallo” e anche criminale?
La verità è che Tuzzi è un letterato, allora da un letterato non ci si può aspettare altro che la letteratura, dunque anche l’inganno, la finzione e, soprattutto, la contraddizione. A tale proposito, avevo saputo, da fonti molto poco attendibili, che era lui stesso in procinto, se non l’ha già fatto, di mettere su un comitato, una sorta di associazione culturale, di erodiani – se così li potremmo definire – cioè simpatizzanti di Erode, dalla quale mi avrebbe per altro escluso avendo scritto, io, oltre al resto, non pochi libri per ragazzi o bambini. E invece, mi sembra di aver notato, in quest’ultimo suo libro, Colui che è nell’ombra (Bollati Boringhieri), e ancora di più nel precedente Curiosissimi fatti di cronaca criminale, una presenza importante dell’infanzia: sono i bambini, e solo i bambini, che riescono ad avere una visione completa della realtà, perfino quando questa ha a che fare con l’ombra o, appunto, dei curiosi fatti di cronaca criminale.
Mi piacerebbe partire da qui, dall’infanzia, in questo scambio con lo scrittore e soprattutto il letterato, proprio perché l’inganno, la finzione e la contraddizione, in realtà, appartengono oltre che alla letteratura, molto più all’infanzia che al mondo degli adulti.
Allora, la mia prima domanda è se possiamo pensare ad una sua, vogliamo dire, estraneità agli adulti? Una naturale simpatia per l’infanzia?
“L’infanzia è il mondo ancora umido della Creazione: tutti, sino ai tre, quattro anni siamo Adamo nel Giardino dell’Eden. Un nostro poeta ha detto: «chi ha avuto la gloria di una giovinezza pressoché priva di adulti nei dintorni se la porta sempre sotto la lingua». Poi si diventa adolescenti, e lì è il crinale. Esiste un male di stagione, il ‘genio dell’adolescenza’: chi lo contrae vive l’età dei grandi amori che ci fa amare le grandi cause, i grandi ideali, quando per non volerli svilire si rinuncia alla carriera nel secolo. Poi anche chi l’ha contratto cresce e – ahimè – i più si fanno tiepidi e guariscono. Diventano adulti. Giorno dopo giorno rinunciano a quei valori che più fan l’Uomo simile a Dio. Ma: «Verrò come un ladro», promette Dio nell’Apocalisse. E un ladro può rubarti il cuore, come sa Emily Dickinson: «So che Lui esiste. / Da qualche parte – in silenzio – / ha nascosto la sua vita rara / ai nostri goffi occhi. // È il gioco di un istante – / è un agguato amoroso – / giusto affinché la gioia / meriti la propria sorpresa!». Chi invece non guarisce fa il misero, il poeta o il martire: spesso, sotto le dittature, le tre figure coincidono”.
Lei non mi ha risposto, ma io non voglio darle soddisfazione, così alzo la posta: perché non si può (o almeno non con me) citare impunemente e nella stessa frase i ladri, Dio, l’apocalisse ed Emily Dickinson – che probabilmente è tutte e tre queste cose insieme. Ma lei ci crede in Dio?
“Be’, se mi fosse capitato, come a lei lo scorso agosto, di essere su tutti i giornali grazie al ladro che si fa arrestare in flagranza perché catturato dalla lettura di un mio libro, direi che il Destino non è sempre un cammello cieco, e dunque… (tra parentesi, questo amore per le buone letture sarà stato considerato attenuante? Spero di sì, in un Paese dove nemmeno la metà della popolazione legge almeno un libro all’anno). Parlando di me, potrei dire, con un mistico, che ciò che esiste non proietta ombra. Credo nel sacro, non nelle religioni. Ma il sacro è sovrumano, e spesso è terribile. Terribile era il riso degli dèi, e Benjamin sostenne che nella storia dell’uomo la commedia precedette la tragedia. Probabile, se si pensa alla potenza del riso per la quale Leopardi scrisse: «Grande tra gli uomini e di grande terrore è la potenza del riso. Chi ha coraggio di ridere è padrone del mondo, poco altrimenti di chi è preparato a morire». Certo, non parliamo del ridere sgangherato dello stolto”.
Non mi sono fatto sfuggire questa cosa che ha detto riguardo ai miseri, i martiri e i poeti sotto le dittature – e da poeta non vorrei approfondire oltre – ma le dittature, come ben sa, non sono soltanto i fascismi, i nazismi o i comunismi, né gli attuali cialtroni che aspirerebbero anche a meno… ma a me sembra che sia il mercato, la peggior dittatura a cui dobbiamo sottostare negli ultimi decenni. Ecco, se anche il mercato che domina l’industria culturale è dittatura, che resta da fare a chi non è guarito dal genio dell’adolescenza?
“Scomparire, prima che ti faccia scomparire il mondo. Per un artista, e per chi fa letteratura, è la scelta più saggia. Come ha detto Gabriel Bounoure, «il silenzio di Rimbaud è più vivo di tutto quello che ha scritto». Ma al mondo son pochi ormai i luoghi in cui nascondersi, ri-conoscersi e serenamente morire. Ovunque ci sono ospedali, dove non si muore: ci si spegne, o da dove si va. In auto. A un cimitero troppo affollato eppure vuoto. Invece, al respiro rauco del mare, una pira, senza per forza essere Shelley. Una pira che arde mentre la notte scende. In fondo, è questione di stile. E lo stile… be’, ecco… lo stile… «Lo stile è cosa che mi prendo a cuore, mi agita orribilmente i nervi, mi contraria, mi rode. Ci son giorni nei quali ne sono malato», dice Flaubert immerso nel suo greve Ottocento. E invece Montaigne: «Sentii di aver raggiunto il vero stile quando riuscii a parlare alla carta come faccio con la prima persona che incontro». Ha ragione lui, così come ha ragione quando prega: «che la morte mi colga mentre pianto cavoli, indifferente a lei e al lavoro interrotto». Per Faulkner lo scrittore è «guidato da dèmoni», perciò, afferma, «penso che la storia imponga il suo stile in buona parte, che lo scrittore non abbia bisogno di preoccuparsi troppo dello stile. Nel caso in cui se ne preoccupi troppo, scriverà un vuoto pretenzioso, abbastanza bello e abbastanza piacevole all’orecchio, ma non ci sarà alcun contenuto». Lo stile è in noi, non è orpello. Pensi ai Tre racconti di Flaubert: ogni storia ha il suo ritmo, ma la voce è quella”.
Se posso farle un appunto, lei è un citazionista, fa troppe citazioni – ma la mia è chiaramente invidia: non le sto dietro, ne conosco si e no un quarto… Comunque: mi sembra che sia un po’ troppo proiettato all’indietro – e non solo quando risponde alle mie domande. Soprattutto nei suoi libri, va sempre a trovarsi delle ambientazioni del passato. Lo dico senza considerarlo un difetto, anzi, tutta la mia poetica si basa sul fatto che la vera letteratura può permettersi il lusso di parlare dell’attuale andando a rovistare nello ieri, quindi sono dalla sua, ma…
“Una lettrice mi ha definito «meravigliosamente al di là del presente»: confesso che ne vado fiero. Sì, con l’eccezione di Vanagloria e, in parte, Nessuno rivede Itaca, ho sempre ambientato i miei romanzi nel passato, perlopiù nel passato prossimo. E allora? Si sa che Balzac e Stendhal ambientarono i loro romanzi venti o trent’anni prima di quando li scrissero. Nel 1863 Tolstoj annuncia a un amico di star lavorando a «una storia degli anni 1810-20», ed è Guerra e Pace. Soltanto nel 1892 Zola pubblica La Disfatta, sulla guerra del 1870. Asturias pubblicherà Il signor Presidente ventott’anni dopo la morte di Cabrera, modello del protagonista. E gli antenati di Calvino non sono forse nostri contemporanei? Perciò, di che cosa stiamo parlando? Da sempre il romanziere lascia il profitto immediato del suo presente ad altri generi di scrittori – giornalisti, pamphlettisti, saggisti nel migliore dei casi. Lui riflette soltanto a partire da valori certi e da fatti dimostrati – magari per presentirne genialmente altri, come accade al Mann della Montagna incantata. Credo che i miei libri siano una non sbandierata ma costante e poco benevola analisi del nostro mondo. E i critici lo hanno colto molto bene, in modo chiaro. Nel 1885, in una lettera da Calcutta, Conrad riassume così la propria visione del mondo: «Io vivo soprattutto nel passato e nel futuro. Il presente, come può ben intendere, ha poche attrattive per me. Guardo agli eventi che accadono con la serenità della disperazione e l’indifferenza del disprezzo». Ciò non gli ha impedito di capire: pensi all’immagine iniziale di Cuore di tenebra, una nave da guerra che nell’immobilità della calura cannoneggia a caso un punto nell’immensità dell’Africa. Già lì, in un lampo, tutta l’ottusa inutilità del colonialismo. Poi, ma poi, tutto l’orrore. Possiamo davvero attribuire a Conrad l’indifferenza del disprezzo? Ecco, nel mio piccolo anche in me il disprezzo non sottintende indifferenza. Sono un dinosauro, come ha detto qualcuno? Ma i dinosauri van di moda, oggi, e in un racconto Calvino lo comprese con grande anticipo: meglio deinòs, terribile, del lieto infantilismo odierno, ai confini della Beozia”.
Sì, ma i dinosauri erano grandi, e la grandezza il loro difetto maggiore: il suo?
“Mi verrebbe da dire la pigrizia e perciò la scarsa capacità di applicazione nello studio, ma in realtà ho un limite più grave: una certa facilità al disprezzo, che oltretutto non so nascondere. Ma il disprezzo avvelena l’anima di chi lo prova, non di chi lo subisce”.
Ecco, il disprezzo lo riconosco. Insieme ad un po’ di irritazione in risposta alla mia domanda sul passato – quindi insisto, giro il coltello nella piaga: Colui che è nell’ombra è una specie di saga familiare dove l’Ombra incombe, appunto, come un peso psicoanalitico, premendo dal passato sul presente. Altro che essere “al di là del presente”, io ci ho visto tutta l’inquietudine del nostro attuale – e non voglio, Dio ce ne scampi, una risposta sulla nostra classe politica.
“La scintilla fu, non a caso, una foto di famiglia, scattata non nel 1937 ma a fine Ottocento: due uomini vestiti alla cacciatora e un enorme leone dalla folta criniera sdraiato ai loro piedi come un tranquillo cagnone. L’immagine risvegliò in me la consapevolezza di quanto per ogni singolo individuo l’eredità genetica conti, quasi come la Storia per i vecchi popoli e i vecchi continenti. Poi, certo, vi è il libero arbitrio e i fratelli possono avere destini molto diversi fra loro. Ma il desiderio faustiano di vitalità provoca nel corpo umano il cancro, nelle società quelle neoplasie che si chiamano -ismi e che conducono alla guerra, sola igiene del mondo. Perciò nelle quattro generazioni di Avogadro che dal 1937 a oggi si susseguono nel romanzo, mentre intorno a loro il magico Friuli agricolo e l’intero Paese cambiano, conoscendo il boom, gli anni di piombo e quelli delle pennette vodka salmone, e l’idea che i miliardari dal passato oscuro siano ottimi governanti, ogni figlio si trova a impersonare il ruolo di padre, già Edipo e ora Laio, mentre l’Italia… mah!… l’Italia… Nell’insieme, mentre scioglievo qualche mio nodo di sangue, credo di aver scritto un buon romanzo. Gotico”.
Si sente molto italiano?
“Ho ascendenze non soltanto italiane ma l’italiano è la mia lingua, e la mia lingua è la mia patria. Per il resto, alle convenienze ho sempre anteposto le convinzioni. Non amo il caffè. Non amo il calcio. E sono così dandy da essere ordinario. Come posso, pertanto, dirmi italiano? Però, sì, invece lo sono. Anche se vivo come straniero in un tempo che non è il mio, tra fatti sporchi di chiasso, in un grande clamore di niente agitato da forze che il singolo non può di fatto contrastare: luoghi comuni irrazionali – pensi soltanto al ritorno delle intolleranze religiose e dei nazionalismi, due dei peggiori mali del mondo, o alla ignorante tendenza a liquidare la scienza da un lato e dall’altro a non concepire alternative alla deriva in corso: non è su queste basi che scoppiò l’inutile macello della Grande Guerra, trionfo di politici e militari ottusi, di industriali di formidabili appetiti e insaziabile ingordigia? Il mondo ritorna verso un modello che si identifica con il peggio della prima metà del Novecento. E però, per tornare alla letteratura, da un punto di vista dei numeri dobbiamo ammettere che, perché ci siano buoni romanzi, ci deve essere anche – ed è il più, di gran lunga – lo scrivere commerciale onesto e persino quello scadente. Ma l’editoria non è un’industria e il registro a partita doppia segue misteriosi calcoli ignoti al mondo del profitto e alle previsioni a tavolino.
Sì, forse è meglio passare ad altro. Classico o romantico? E la domanda, avendo letto gli ultimi due suoi libri, non è peregrina.
“Si può amare il gotico e detestare il barocco, e persino amare senza contraddizione romanico e gotico. L’ispirazione è necessaria (romantico) ma dominarla è essenziale (classico). Certo, per dominarla bisogna prima viverla, e già questo non è da tutti. D’altra parte, chi non si dimentica mai in quel che prova, non prova mai nulla di grande”.
È possibile oggi in Italia una grande letteratura di tradizione?
“Temo di no. Tradizione sottende una struttura – sociale culturale etica e mentale – che da noi, e non soltanto da noi, si è sgretolata. Negli anni Trenta Robert McAlmon affermava che «il pubblico non è né semplice né onesto, e quando i bifolchi e i mediocri fanno proprio ciò che essi pensano sia intellettuale, ironico e arguto, è il momento di preoccuparsi se la loro pretenziosità prende il controllo dei club del libro». Mi pare che ormai non resti più nulla di cui potersi preoccupare. Molti romanzieri, specie i più giovani, guardano all’America, intesa come Stati Uniti, a quella letteratura sovrastimata grazie a quel che nell’Ottocento si chiamava “politica delle cannoniere” per la quale tutti conoscono, almeno di nome, i romanzieri inglesi di quell’epoca, ben coltivate colline, mentre nessuno ha sentito parlare della Regenta di Clarín, e pochi dei Viceré di De Roberto: due autentiche vette, ma di nazioni, politicamente parlando, di second’ordine. Gli autori americani oggi sono creati e pompati a tavolino dai colossi editoriali, secondo strategie simili a quelle del mercato dell’arte, oggi fatto da poche gallerie e case d’asta, e collezionisti che acquistano in base al prezzo – che deve essere altissimo – senza nemmeno vedere o portare a casa l’opera. Perché non collezionano, investono. Così come gli editori americani investono sul loro campionario. E funziona, ovviamente. Invece tutta la letteratura è magia. La parola e il linguaggio, come una litania o un sortilegio, danno forma a una storia. Proprio come il golem, cui si dà vita attraverso una formula magica. E il golem, infatti, è una replica in miniatura, uno specchio del mondo. Come il romanzo”.
Sentendola parlare, mi viene da pensare a Melis, che è il suo personaggio di maggior successo, e che siamo in molti ad amare, perché è un uomo pacato e attento, che non si avventa sulla realtà, ma non la sfugge, perché si permette il lusso di parlarci da una certa distanza. E perché non è solamente un commissario, intendo dire che è un personaggio a tutto tondo, che avrebbe abitato benissimo anche un qualche generico romanzo o, come controfigura, un saggio. Ecco, essendosi cimentato in diversi generi, immagino non abbia mai sentito il bisogno di darsi una qualche definizione…
“Sì, è vero, ho frequentato diverse contrade della letteratura. Con lo stesso intenso piacere con il quale ho viaggiato, spesso a piedi, nei più diversi luoghi del mondo. Deserti e montagne, sopra tutti. Come definirmi? Un insieme di atomi stanchi di stare insieme”.
Adesso tornerei volentieri a quanto dicevo all’inizio: ma io con chi ho parlato? Perché quando ci siamo sentiti al telefono per prendere un appuntamento, come si faceva in altri tempi, al suo “Pronto” le ho chiesto se potevo parlare con Adriano Bon. “Non c’è” mi ha risposto, “posso provare a farla parlare con Hans Tuzzi”. E io mi sono accontentato, ma non mi sembra che la voce dall’altra parte dell’apparecchio sia cambiata, anche se tutto sommato mi sembra sia andata bene così… come che sia, adesso posso chiederlo: perché usa uno pseudonimo?
“Uno? Come autore ho firmato con il mio nome anagrafico, e poi Hans Tuzzi e Sandor Weltmann. E se avessi potuto, tenendo Tuzzi per i saggi di bibliofilia, ne avrei usati altri: uno per i Melis, uno per i Vukcic, uno per i romanzi-romanzi. Agli editori sembra uno sperpero inutile, e li capisco, però getta luce sull’idea di letteratura che ha guidato, e lasciam pure riposare Pessoa, l’intera opera di Romain Gary. Un’idea fondata, scrive Riccardo Fedriga nella postfazione italiana alla lettera postuma nella quale Gary rivelò essere Ajar, su «una vera e propria “poetica del fare pseudo”, cioè diventare un personaggio che non si appartiene mai, inafferrabile, sempre altro sia a sé stesso sia da sé stesso». Insomma, aggiunge Fedriga, gli pseudonimi non sono che nomi di questa poetica, tentativi di uscire dall’impostura dell’esistenza reale e di vivere la propria autentica vita nella verità della letteratura. Va poi messo in conto quello stesso esclusivismo fisico e morale che ispirò a Stendhal l’amore per la mistificazione: «Je porterais un masque avec plaisir, je changerais de nom avec délices.» Del resto, come ben sapeva uno scrittore al pari di Gary suicida, solo una maschera può confessarsi”.
IL NUOVO LIBRO DI TUZZI – Hans Tuzzi (pseudonimo di Adriano Bon, nato a Milano il 28 ottobre 1952) è l’apprezzato autore – oltre che di saggi sulla storia del libro e sul suo mercato antiquario, del romanzo Vanagloria (2012), di Come scrivere un romanzo giallo o di altro colore (2017) di Nessuno rivede Itaca (2020) e di Curiosissimi fatti di cronaca criminale (2023) – dei celebri gialli ambientati a Milano che hanno come protagonista il commissario, poi vicequestore, Norberto Melis: Il Maestro della Testa sfondata (2002 e 2016), Perché Yellow non correrà (2005 e 2016), Il principe dei gigli (2005 e 2012), Casta Diva (2005 e 2013), Fuorché l’onore (2005 e 2017), La morte segue i magi (2009 e 2017), L’ora incerta fra il cane e il lupo (2010 e 2017), Un posto sbagliato per morire (2006 e 2011), Un enigma del passato (2013 e 2017), La figlia più bella (2015), La belva nel labirinto (2017), La vita uccide in prosa (2018), Polvere d’agosto (2019), La notte, di là dai vetri (2019), Nella luce di un’alba più fredda (2021), Ma cos’è questo nulla? (2022). Tuzzi è anche autore della trilogia dedicata all’agente segreto Neron Vukcic, Il Trio dell’arciduca (2014), Il sesto Faraone (2016) e Al vento dell’Oceano (2017). E nel 2023 ha firmato Curiosissimi fatti di cronaca criminale.
Il suo nuovo romanzo, Colui che è nell’ombra, edito da Bollati Boringhieri, racconta quattro generazioni di una nobile famiglia nel Friuli dal 1937 a oggi. La narrazione, per bocca dell’intendente dei conti Avogadro, non si svolge lenta giorno dopo giorno, mese dopo mese, ma procede per momenti significativi, piccoli o grandi, che spiccano nel succedersi degli anni, e ha come sfondo il progressivo mutare di una regione negli anni Trenta periferica, agricola, feudale e per certi aspetti magica, con l’improvvisa accelerazione del dopoguerra, dal boom economico al benessere diffuso e alla perdita di tradizioni e riferimenti.
Su questo arazzo di fondo – nel quale Tuzzi dispiega conoscenze e memorie dirette, affascinato dalle tradizioni popolari e caustico verso il presente – si susseguono le vicende degli Avogadro, nel progressivo divenire padre di colui che era figlio, e che da padre con il proprio figlio rinnova lo scontro fra generazioni. Sullo sfondo, silenziose e sagge, le donne di famiglia reggono i fili della vita. Ma il tempo dato agli Avogadro è percorso, come una vena carsica, da una leggenda nera che ha come protagonista lo spirito inquieto di un antenato. Alle superstizioni delle campagne si aggiunge perciò l’ombra di un’anima dannata. E infine qualcuno verrà, non come ladro nella notte ma come vortice nel vento. Non è del resto, il Friuli, paese di temporali e di primule?
L’AUTORE DELL’INTERVISTA – Giovanni Nucci, poeta e autore di romanzi, saggi e racconti per ragazzi, per quindici anni ha studiato, raccontato e riscritto miti greci e romani. Tra i suoi libri più noti Ulisse. Il mare color del vino (e/o, 2004 – Salani, 2013), Roma i miti e gli eroi (Feltrinelli, 2007, Salani, 2023), Francesco (Rizzoli, 2013), La storia di tutto (Salani, 2017), E due uova molto sode (Italosvevo, 2017), La differenziazione dell’umido (Italosvevo, 2018), Achille. Il midollo del leone (Salani, 2021), Gli dèi alle sei, l’Iliade all’ora dell’aperitivo (Bompiani, 2023), Atlante delle emozioni nel mito (Il Saggiatore, 2023).
Fonte: www.illibraio.it