Ridefinire il nostro spazio nelle metropoli

di Redazione | 11.11.2022

Ridefinire il nostro spazio nelle metropoli Esplorare la città attraverso il corpo, recuperare la dimensione dell’andare a piedi, visitando anche gli spazi urbani meno conosciuti o meno battuti, riconoscerli come parte di noi stessi, riscrivere una nuova narrazione del territorio che sia più rispettosa del nostro benessere psico-fisico e del benessere ambientale. Questo è lo […]


Ridefinire il nostro spazio nelle metropoli

Esplorare la città attraverso il corpo, recuperare la dimensione dell’andare a piedi, visitando anche gli spazi urbani meno conosciuti o meno battuti, riconoscerli come parte di noi stessi, riscrivere una nuova narrazione del territorio che sia più rispettosa del nostro benessere psico-fisico e del benessere ambientale. Questo è lo scopo della psicogeografia, una tecnica nata con le avanguardie artistiche, che diventa anche performance e atto politico. Grazie a questa pratica transdisciplinare siamo in grado di leggere il palinsesto urbano, in cui si stratificano i diversi significati di un luogo e le aspettative della gente che lo abita.
Con lo stesso sguardo trasversale, Gianni Biondillo percorre la città e la storia del pensiero urbanistico e architettonico, senza tralasciare incursioni nella filosofia, nell’arte, nell’antropologia e nella letteratura, offrendo suggestioni per comprendere il paesaggio contemporaneo fuori dai suoi luoghi comuni. I lettori vengono invitati a mettersi in cammino e a fare le proprie scoperte, restituendo identità ai luoghi mediante la narrazione.

Di tutto questo si parla nel nuovo saggio di Gianni Biondillo, Sentieri metropolitani, di cui anticipiamo qui un estratto

 

© 2022 Bollati Boringhieri editore

La libertà di fare quello che ci pare e piace non esiste, è un mito pubblicitario.
Spesso ci vuole davvero poco per prendere una pessima abitudine poi difficile da scrollare di dosso. Sembra che siamo sempre stati animali meccanizzati, sembra che camminare sia cosa che non ci sia mai appartenuta. È una questione di narrazione, dicevo. L’automobile è stata la concreta rappresentazione dell’emancipazione dalla povertà.
Camminare è da poveracci. Nel nostro paese ci fregiamo di possedere il più alto numero di bellezze storiche e artistiche, ma vogliamo raggiungerle in macchina.
E trovare parcheggio proprio di fronte alla cattedrale che andiamo a visitare. Dalla costiera amalfitana ai Sacri Monti sembra che l’unico modo di valorizzare il nostro patrimonio artistico sia costruirci a fianco uno smisurato parcheggio. Per meglio usufruire del bello.
Dunque, questa è la contraddizione. L’automobile che propugna e reclamizza miti anti-urbani in realtà è il dispositivo perfetto per la definizione della nuova metropoli. Che non è più il luogo della coscienza collettiva, ma della polverizzazione delle identità. Vogliamo essere tutti diversi, originali, indipendenti, e siamo tutti immersi in un paesaggio intasato, bloccato, frustrante, alienante. La città non la disegniamo più noi, ma il capitalismo globale. È chiaro che questa narrazione tossica deve cambiare. I nostri nipoti non riusciranno a capire come sia stato possibile aver accettato per decenni – nonostante gli allarmi lanciati da tutti gli scienziati del globo terracqueo – di ingerire veleni e deturpare il paesaggio nel nome di una falsa libertà individuale. Perché che esista un legame assodato fra polveri sottili e salute pubblica è cosa ormai innegabile. Si potrebbe quasi citare alla Corte dell’Aja la politica nazionale per tentato disastro sanitario e crimini contro l’umanità. L’esposizione acuta all’inquinamento atmosferico danneggia le vie respiratorie, il sistema cardiovascolare, peggiora la meccanica respiratoria, altera i meccanismi di regolazione del cuore. Non c’è pneumologo che non ci dica quanto gli effetti sulla salute dei Pm10 e Pm2,5 siano gravi e molto spesso cronici. Molti studi, fatti soprattutto all’estero, associano i livelli d’inquinamento col numero di ricoveri e morti quotidiani per cause respiratorie e cardiovascolari.
Il problema è che tutto questo «non si vede», proprio come la medicina dell’Ottocento, incapace di scorgere i benefici della pratica della sterilizzazione. Il mito dell’automobile come simbolo di emancipazione è potente. In un paese che ha un sistema di mobilità pubblica deprimente come il nostro si crea una sorta di circolo vizioso: solo un italiano su dieci si muove coi mezzi pubblici perché, come ci viene detto, chi abita lontano non può muoversi, mancando una degna rete di trasporti pubblica. Però è anche vero che ben pochi pendolari condividono il tragitto casa-lavoro con i colleghi (risparmiando, tra l’altro, soldi e spazio occupato) e, peggio, quasi la metà di chi si sposta in macchina abita a neppure mezz’ora dal posto di lavoro. In bicicletta ci metterebbe meno!