La verità sul comandante Facio

di Redazione | 20.03.2023

La verità sul comandante Facio Dopo anni di ricerche storiografiche, Pino Ippolito Armino cerca di ricostruire l’incredibile vicenda del Comandante Facio Il 22 luglio 1944, Dante Castellucci, nome di battaglia Facio, comandante partigiano del Battaglione Picelli – operante in Lunigiana, sull’Appennino tra La Spezia e Parma –, viene fucilato dai suoi compagni dopo un sommario […]


La verità sul comandante Facio

Dopo anni di ricerche storiografiche, Pino Ippolito Armino cerca di ricostruire l’incredibile vicenda del Comandante Facio

Il 22 luglio 1944, Dante Castellucci, nome di battaglia Facio, comandante partigiano del Battaglione Picelli – operante in Lunigiana, sull’Appennino tra La Spezia e Parma –, viene fucilato dai suoi compagni dopo un sommario processo.
Il 27 aprile 1962, per decreto del presidente Giovanni Gronchi, gli viene conferita la medaglia d’argento al valor militare alla memoria, in quanto «scoperto dal nemico, si difendeva strenuamente; sopraffatto ed avendo rifiutato di arrendersi, veniva ucciso sul posto».
Evidentemente qualcosa non torna.
Dante Castellucci era calabrese, non un figlio del nord dunque, e questo spiega forse in parte la problematicità della sua memoria. Emigrato giovanissimo in Francia e arruolato nell’esercito italiano, diserta e si rende protagonista della primissima azione partigiana, ancor prima dell’8 settembre e dell’occupazione tedesca e persino prima della caduta del fascismo del 25 luglio 1943. Il 22 giugno assalta con i suoi compagni il poligono militare di Guastalla e si impossessa di armi e munizioni. Verrà arrestato assieme ai fratelli Cervi alla fine del ’43, ma riuscirà a fuggire, evitando di un soffio la fucilazione; accusato – incolpevole – di tradimento, si sposterà sull’Appennino, dove in breve tempo acquisterà fama leggendaria: i bollettini angloamericani riporteranno un’azione nella quale, assieme a soli otto compagni, riesce a tenere testa a 150 nazifascisti per un giorno intero.
Comandante amato, stratega riconosciuto, Facio muore poco più che ventenne consegnandosi docilmente al plotone d’esecuzione partigiano.
Dopo anni di ricerche, Indagine sulla morte di un partigiano ricostruisce la vicenda eccezionale di un combattente anomalo, coraggioso e appassionato, con tutti i chiaroscuri che la storiografia seria sa mettere in risalto. Pino Ippolito Arminoci consegna finalmente un resoconto accurato e solido sulla vita e gli ideali di un grande resistente e sui motivi che possono aver portato al tragico epilogo.

Anticipiamo qui un estratto

Prima edizione marzo 2023

© 2023 Bollati Boringhieri editore

La fuga di Dante ha alimentato nel Partito il sospetto di un tradimento da parte del calabrese.
Questa, almeno, la prima ipotesi in grado di giustificare l’incredibile decisione presa dai dirigenti reggiani nei suoi confronti. A emanare l’ordine di tenerlo in «quarantena» e poi di ucciderlo è Ottavio Morgotti, dirigente del pci di Correggio, che Dante ha incontrato nel breve soggiorno a Rio Saliceto. Incaricati dell’esecuzione sono Otello e Danilo. Lo conferma lo stesso Sarzi. L’ordine non verrà però rispettato perché i due, sapendo infondati i sospetti che gravano su Dante, si limitano a seguirlo giungendo sempre volutamente con almeno mezz’ora di ritardo sui luoghi del suo passaggio.
Camurri, nel suo già citato interrogatorio, ha rivelato agli inquirenti che quando furono rinchiusi alla caserma dei Servi iniziarono a interrogarsi su chi avesse potuto denunciare la presenza dei prigionieri di guerra in casa Cervi. Dante aveva pensato a Pepòn Gabb, un noto fascista di Campegine mentre Gelindo aveva affacciato l’ipotesi che a informare la milizia fosse stato il dottore che era stato chiamato a curare Joe (il sudafricano Bastiaance). Autori di dichiarata fede fascista, i fratelli Giorgio e Paolo Pisanò hanno confermato la tesi della delazione, chiamando però in causa un protagonista che sarebbe rimasto nell’ombra nella storiografia ufficiale sui Cervi, Riccardo Cocconi. Quest’ultimo, appartenente a una famiglia borghese di Campegine, aveva aderito al Partito comunista sin dagli anni trenta agendo da infiltrato nella milizia fascista prima di entrare nella Resistenza con il nome di battaglia Miro. Era così in grado di informare i compagni su tutte le misure prese a carico degli antifascisti e del suo ruolo sarebbero stati a conoscenza tutti i quadri del Partito e gli stessi Cervi. Nella contrapposizione che si era determinata, Cocconi sarebbe stato alleato di Tito e di Davide. Nel Comitato militare il solo D’Alberto non era ostile per principio ai Cervi ed era stato infatti lui a concedere a Gino ancora una possibilità assegnandogli il compito di attentare alla vita del federale Scolari. Il fallimento dell’attentato, dovuto anche alla scarsa determinazione degli aggressori che non si erano mai macchiati di fatti di sangue, avrebbe segnato anche la loro fine. D’Alberto era stato costretto a lasciare l’incarico e Lemmi lo aveva sostituito con Tito, acerrimo avversario dei Cervi. Così il gruppo era rimasto isolato, le case di latitanza definitivamente sbarrate. Ma ci sarebbe di più. Due giorni prima dell’irruzione ai Campi Rossi, nella caserma Mussolini della mvsn di Reggio, si sarebbe svolta una riunione nell’ufficio del capitano Pilati. Vi avrebbe preso parte anche il capitano Cocconi, comandante del presidio di Campegine e segretario locale del Fascio, questa volta non per assumere informazioni da passare ai compagni di Partito ma per informare la milizia del ritorno a casa dei Cervi.
Sul ruolo di Cocconi, insieme nel Partito e nella milizia fascista, c’è una testimonianza non equivoca dell’esponente comunista Giannino Degani che riferisce di averlo conosciuto alla libreria Prandi, abituale luogo di ritrovo degli antifascisti a Reggio Emilia. Cocconi era un laureato in Scienze economiche che, scrive Degani, «avendo una carica in mezzo alle gerarchie fasciste poteva tenerci informati delle misure politiche a carico degli antifascisti». Sulla sua partecipazione all’incontro in caserma che precede la cattura dei Cervi non c’è però che la parola dei Pisanò mentre nel rapporto stilato dalla gnr l’indagine sarebbe nata da un’iniziativa autonoma della Legione dopo le ripetute azioni in provincia. È comunque un fatto che con i Cervi in carcere le iniziative dei gap (Gruppi d’azione patriottica) non si siano fermate, anzi. Dopo l’uccisione del colonnello Fagiani la posizione degli arrestati si era già fatta molto critica per la pressione che sul prefetto esercitavano le frange più estreme del Fascio locale perché fosse data una punizione esemplare e Savorgnan aveva emesso un bando con il quale minacciava, in caso di nuovo attacco mortale, l’uccisione di dieci antifascisti, rappresaglia da compiersi su chi risultasse già detenuto con un’accusa precisa.
Il successivo omicidio di Davide Onfiani potrebbe perciò trovare giustificazione nella volontà di chi lo ha ordinato di chiudere definitivamente la partita con gli «anarchici» dei Campi Rossi. È innegabile che in questa prospettiva anche la condanna a morte di Dante da parte della dirigenza comunista assume un significato ben preciso. Non più la risposta a una improbabile accusa di spionaggio ma la conclusione di un progetto avviato con la eliminazione dei Cervi.