I “Randagi” di Marco Amerighi non scappano più

di Elena Marinelli | 07.09.2021

"Randagi" di Marco Amerighi è un romanzo corposo, denso di disegni in chiaroscuro, di personaggi che si affacciano nella trama principale. Ruota attorno alle vicende della famiglia Benati, a cavallo fra la fine degli anni Novanta e l’inizio dei Duemila. Nessuno scappa, nessuno chiede appelli, perché il risultato finale è per loro già scritto - L'approfondimento


La lettura, anche quando di grandissima qualità,
si fa meno attiva e nella passività abbisogna di tutto,
perché l’immaginazione riempie sempre meno gli spazi
e scarseggia la pazienza di aspettare fino alla fine, fremere, sussultare.

(Nadia Terranova su Linkiesta, 16 agosto 2021)

 

Ne Le nostre ore contate (Mondadori, 2018), l’esordio di Marco Amerighi (in copertina, nella foto di Marina Abatista), la scomparsa era uno dei temi attorno a cui gravitava il racconto; si faceva rappresentare da vuoti continui: era la mancanza fisica che metteva in moto parte della narrazione. In Randagi (Bollati Boringhieri), invece, il secondo romanzo dell’autore, la scomparsa è fisica, materiale, quasi dilagante e legata indissolubilmente ai personaggi della storia. Nessuno scappa, nessuno chiede appelli, nessuno vuole farci i conti, perché il risultato finale è per loro già scritto.

Copertina del libro Randagi di Marco Amerighi

Randagi è un romanzo corposo, denso di disegni in chiaroscuro, di personaggi che si affacciano nella trama principale, ma hanno anche la loro storia da regalare. Narrato con una terza persona coinvolgente e che osserva l’intima sorte dei suoi protagonisti, ruota attorno alle vicende della famiglia Benati, a cavallo fra la fine degli anni Novanta e l’inizio dei Duemila: in sostanza l’altro ieri, se si pensa in termini storici, secondo modalità appunto novecentesche; un tempo, invece, decisamente più lungo se si guarda alla realtà, a quello che siamo diventati nel frattempo e ai rapporti interpersonali, mutati rispetto a quelli di quegli anni e diventati sempre più mediati.

Il tempo del racconto, dunque, è una cornice sicura, perché non ci sono mai dubbi sul quando: ci sono gli sms, i viaggi Erasmus, riferimenti storico-politici come l’attentato nella città di Madrid dell’11 marzo 2004, le email più lunghe di un vocale di dieci minuti, ancora le cartoline solo per salutare e infine, forse il più importante, la possibilità di negarsi, di non rispondere per intere settimane a una persona.

La famiglia Benati è una famiglia dell’ultimo Novecento perché può prendersi la briga – e la libertà – di diventare irraggiungibile, se vuole, di fondarsi su un mito preciso: la scomparsa, che nel romanzo è una sorta di premessa, narrata sotto forma della maledizione che coglie ogni membro maschile della famiglia, dal capostipite Furio a Berto il Mutilo passando per il primogenito Tommaso; inoltre è ciò che Pietro, il protagonista e ultimo nato della stirpe, aspetta per sé e osserva negli altri attorno a sé. È un marcatore genetico, qualcosa da cui non si può prescindere, ma ha una caratteristica tutta sua: deve manifestarsi. Si può sentire ribollire, crescere, svilupparsi, ma bisogna attendere che si palesi. Non c’è decisione che Pietro può prendere a riguardo, non può chiamarla nella sua vita quando crede e quindi la sua scelta è aspettare.

Il romanzo è diviso in tre parti con al centro un tipo diverso di destino: quello inconfutabile, quello umano, dunque aggirabile attraverso le decisioni, e quello taciuto, che si immagina come futuro. Per tutta la prima parte della sua vita, e del romanzo, Pietro è fermato da scelte comuni e questo ce lo rende vicinissimo, lo dipinge il protagonista ideale, colui che abbracciamo ogni volta che qualcosa nella storia va storto. La sua inettitudine a far parte di una stirpe e di un mondo si rivela subito la nostra.

Marco Amerighi

Al contrario, Tommaso, Berto e Furio non hanno bisogno di noi, non cercano una storia: è già tutto predisposto, avviato, scritto. Nel gioco della contrapposizione, gli altri tre maschi della famiglia Benati sono ininfluenti, non possono farsi carico di un’altra vita eccetto la propria, ad esempio, mentre Pietro, al contrario, può prendersi cura degli altri, del coinquilino della casa di Madrid Laurent, come di Dora, la ragazza che lo sorprende perché lo tratta come uno qualunque e non come Pietro Benati da Pisa, maledetto, o come Pietro Benati da Pisa, l’inetto.

Nella prima del romanzo la maledizione Benati fa il suo ingresso pomposo e si insinua nella vita dei protagonisti. Rintracciamo la storia di Furio in Etiopia, quella di Berto, detto poi il Mutilo, scommettitore incallito e infine Tommaso, il primogenito, il fratello con cui Pietro, nonostante le differenze e le mancanze, riesce a farsi una famiglia. La madre Tiziana è il primo personaggio secondario che si incontra, forse il più importante, perché chiude il cerchio famigliare. È ipocondriaca, si preoccupa per Tommaso quando scompare e per il marito quando non c’è e si fa trovare sempre al punto di partenza, quando il giro di pista della sparizione finisce.

Pietro è un ragazzo che rincorre il talento – suo fratello ne ha per entrambi e a lui tocca inseguirne di diversi, specifici, tutti per sé – e impiega la vita a vedere all’orizzonte il momento in cui farà perdere le sue tracce, seguendo un destino che gli pare da un lato codardo dall’altro profondamente affascinante. Vorrebbe abbracciare appieno la solitudine dell’essere umano, quella fisica, oltre che emotiva, vorrebbe rinunciare alla sorte di famiglia, ma al tempo stesso farne disperatamente parte.

A differenza di Tommaso, che si colloca perfettamente nella scia familiare dell’eccezionalità, Pietro è un ragazzo chiuso, non si innamora, non ha alcuna vera capacità e seminano in lui due tarli che lo accompagneranno per la vita: la colpevolizzazione per un incidente che cambia la vita a suo fratello e l’apparente impossibilità di scomparire come tutti gli altri. Il primo gli tarpa le ali emotivamente, il secondo lo rende uno come tutti gli altri, gli altri fuori dalla famiglia Benati, colmo di insicurezze e di circostanze da realizzare, uno che potrebbe fare ciò che vuole, sbagliare come crede, e invece pensa semplicemente di non essere all’altezza di questa iniqua tradizione di famiglia.

Nella seconda parte del romanzo, Pietro si trova a Madrid: ha cambiato città e nazione, Tommaso è a New York e poi vola in Sudamerica, Berto è – sembra? – malato e come al solito ha bisogno della sua famiglia, Furio non parla con nessuno e Tiziana cerca un modo per ricongiungerli tutti. A Madrid, Pietro incontra Laurent, con cui divide casa, e Dora, le due persone che finalmente gli permettono di esercitare un diritto banale ma efficace: “Lontano dagli occhi lontano dal cuore”, e dunque lontano dalle maledizioni del clan. Pietro impara a non andarsene, anzi: inizia a confrontarsi con la vita e i suoi destini – finalmente questa parola diventa un plurale –, diventando un po’ più grande di come lo abbiamo lasciato. A Pietro tocca prendere decisioni: cosa fare da grande, dove, come; e poi sperimentare, inventare, improvvisare. La vita adulta lo impensierisce, decidere quale strumento musicale suonare lo rende irrequieto.

Nella terza e ultima parte di Randagi vediamo assieme ai fratelli Benati “il futuro prima che prenda forma” e in particolare con Pietro come sono fatti i ritorni a casa, anche se a distanza di sedici gradini, e come forse si può aggirare la scomparsa. Pietro è fuori dalla famiglia, ma è anche colui che la porterà nel domani, proprio perché non è fatto come gli altri e perché questa maledizione che lancia i Benati nel mondo, e che decide al posto loro, secondo un disegno inconfutabile, a lui non riguarda.

La storia si scioglie e con essa le premesse diventano constatazioni, mancate promesse, sogni infranti, desideri passati in secondo piano perché la vita, nel frattempo, ha fatto il suo corso e Pietro ancora una volta si domanda se può o meno fare qualcosa a riguardo.

Fonte: www.illibraio.it