Libri di ieri e di oggi che esplorano il rapporto tra fratelli e sorelle


Condividere la stessa origine, lo stesso vocabolario e a volte perfino la stessa stanza, eppure riconoscere in questa vicinanza un’ambiguità profonda, in cui l’intimità può mescolarsi con il conflitto, l’intesa con la rivalità: una sensazione che risulterà familiare a molti fratelli e sorelle, e intorno a cui orbitano stati d’animo e pensieri spesso complessi.

Lo sa bene la letteratura, che non si è mai accontentata di raccontare un rapporto peculiare come questo in termini di calma piatta o di scontro aperto, esplorandolo invece come se si trattasse di un territorio sfumato, in cui a emergere sono le domande più che le risposte.

Una foto vintage che ritrae tre fratelli e sorelle seduti vicini e sorridenti

In un tempo in cui il concetto di famiglia inizia peraltro a essere percepito più come una costellazione fluida che come una struttura rigida, osservare da una prospettiva più consapevole e sfaccettata le tante storie che da secoli indagano il concetto di fratellanza o di sorellanza può trasformare la lettura in una forma di riconoscimento: non per forza del nostro vissuto, ma sicuramente di una grammatica relazionale che in qualche modo riguarda anche noi.

Ecco quindi una selezione di libri di ieri e di oggi (che non pretende di essere esaustiva e i cui titoli sono posti in ordine di prima pubblicazione) dedicati alle intermittenze, agli indugi e alle tensioni che hanno da sempre caratterizzato il legame tra fratelli e sorelle.

Un percorso che va dalle opere di Jane Austen a quelle di Fëdor Michajlovič Dostoevskij, passando per Thomas Mann, Israel Joshua Singer ed Elizabeth Strout, e che ci invita a riscoprire l’affascinante ambivalenza di una relazione sempre in bilico tra il rifiuto e la devozione, tra la distanza emotiva e un irriducibile desiderio di appartenenza

Orgoglio e pregiudizio

Copertina del libro Orgoglio e pregiudizio, romanzo di Jane Austen che esplora il rapporto tra fratelli e sorelle

Cominciamo da Orgoglio e pregiudizio (Garzanti, traduzione di Isa Maranesi), capolavoro della scrittrice inglese Jane Austen (1775-1817) che, oltre alla celebre storia d’amore tra Elizabeth Bennet e Mr. Darcy, ci offre un’acuta rappresentazione delle dinamiche tra fratelli e sorelle, in particolare all’interno della famiglia Bennet.

Le cinque sorelle del romanzo hanno infatti dei caratteri molto lontani fra di loro e, mentre l’affettuoso legame tra Jane e Lizzy evidenzia intelligenza e solidarietà, le tensioni con Lydia e Kitty rivelano gli effetti della leggerezza e dell’assenza di una guida morale. Senza dimenticare poi il rapporto tra Charles e Caroline Bingley, nel cui caso l’interesse sociale di quest’ultima prevale sull’autenticità della loro relazione, e quello tra Fitzwilliam e Georgiana Darcy, uniti invece da un profondo senso di appartenenza e protezione reciproca.

Piccole donne

Copertina del libro Piccole donne, romanzo di Louisa May Alcott che esplora il rapporto tra fratelli e sorelle

Letto in quest’ottica, anche Piccole donne (Salani, traduzione di Clara Rubens, Dida Paggi ed Elda Levi) dell’autrice americana Louisa May Alcott (1832-1888) è di fatto il racconto della crescita di quattro sorelle nel contesto della Guerra Civile americana: la materna e responsabile Meg, l’indipendente e creativa Jo, la dolce e altruista Beth e l’ambiziosa e vanitosa Amy.

Una celebrazione della sorellanza come nucleo affettivo, educativo e identitario, che grazie anche ai consigli di mamma Marmee si evolve tra sfide da superare, lutti da elaborare e sogni da inseguire, mostrandoci come il confronto possa rafforzare l’affetto e la crescita personale. Le loro relazioni sono infatti talvolta segnate da rivalità e incomprensioni, pur restando fondate su un forte senso di famiglia che permette loro di considerare comunque sacro il rispetto e l’ascolto reciproco.

I fratelli Karamazov

Copertina del libro I fratelli Karamazov, romanzo di Fedor Dostoevskij che esplora il rapporto tra fratelli e sorelle

Proseguiamo con I fratelli Karamazov (Garzanti, traduzione di Maria Rosaria Fasanelli), in cui il grande scrittore russo Fëdor Michajlovič Dostoevskij (1821-1881) ci presenta la storia di Dmitrij, impulsivo e passionale; di Ivan, tormentato dalla ragione e dal dubbio; di Alëša, guidato dalla fede e dalla bontà; e di Smerdjakov, il figlio illegittimo, emarginato e ambiguo.

La loro relazione è intrisa di silenzi e ostilità che diventano lo specchio del nostro rapporto con la libertà e con il male, dei nostri dilemmi sull’esistenza di Dio e dell’importanza di assumerci le nostre responsabilità. Ciascuno di loro finisce così per rappresentare una parte dell’animo umano e ci permette di riflettere sulle contraddizioni più profonde della nostra natura, trasformando la famiglia Karamazov nel ritratto ancora attuale di un’umanità alla ricerca di verità e redenzione.

I Buddenbrook

Copertina del libro I Buddenbrook, romanzo di Thomas QMann che esplora il rapporto tra fratelli e sorelle

In un percorso dedicato ai libri su fratelli e sorelle non poteva poi mancare I Buddenbrook (Garzanti, traduzione di F. Jesi e S. Speciale Scalia) di Thomas Mann (1875-1955), opera monumentale che racconta il declino di una famiglia borghese nell’arco di quattro generazioni, mettendo in luce le dinamiche affettive e spesso dolorose che riguardano Thomas, Christian e Tony, figli del capofamiglia Johann.

Ciascuno di loro reagisce in modo diverso alle aspettative altrui, declinando secondo la propria sensibilità il conflitto tra le aspirazioni personali e il peso delle tradizioni. Ed è proprio attraverso la loro disillusione, ribellione o ubbidienza che lo scrittore e saggista tedesco ci mostra come il crollo di una dinastia possa verificarsi non solo sul piano economico e sociale ma anche su quello più intimo e umano, se non si riesce a trovare un equilibrio tra amore, identità e libertà.

I fratelli Ashkenazi

Copertina del libro I fratelli Ashkenazi, romanzo di Israel J. Singer che esplora il rapporto tra fratelli e sorelle

Veniamo ora a I fratelli Ashkenazi (Bollati Boringhieri, traduzione di Bruno Fonzi), noto romanzo dell’autore polacco Israel Joshua Singer (1893-1944), che si focalizza sulla drammatica parabola dei fratelli di origine ebraica Simcha Meir e Jacob Bunim Ashkenazi nella Łódź industriale di fine Ottocento.

Gemelli di nascita, ma agli antipodi per indole e ideali, i due finiscono inevitabilmente per diventare rivali: Simcha Meir è infatti ambizioso, calcolatore e legato al potere capitalista, laddove Jacob Bunim è più idealista, vicino al mondo operaio e alle lotte sociali. Il loro legame, segnato dall’invidia e da scelte di vita sempre più inconciliabili, non è però solo quello di due uomini in conflitto, bensì in senso più ampio quello di un intero popolo che cerca, senza trovarla, una terza via tra l’eredità del passato e l’incertezza del futuro.

Il buio oltre la siepe

Copertina del libro Il buio oltre la siepe, romanzo di Harper Lee che esplora il rapporto tra fratelli e sorelle

La nostra selezione di libri dedicati a fratelli e sorelle continua con uno dei capisaldi della letteratura americana del Novecento, ovvero Il buio oltre la siepe (Feltrinelli, traduzione di Vincenzo Mantonavi) dell’autrice Harper Lee (1926-2016). Pubblicato nel 1960, il romanzo ha per protagonisti Scout e Jem Finch, una bambina vivace e intelligente e il suo fratello maggiore, che vivono nel profondo Sud degli Stati Uniti negli anni Trenta con il padre Atticus, dopo essere rimasti orfani di madre.

Nel duro contesto di Maycomb, segnato dal razzismo e da forti ingiustizie sociali, i due rimarranno uniti e impareranno insieme a distinguere il bene dal male, l’apparenza dalla verità, l’ingiustizia dal coraggio. Il loro affetto rappresenterà così un baluardo di empatia e di speranza, che li porterà a influenzarsi e ad assistersi perfino nelle situazioni più pericolose…

Abbiamo sempre vissuto nel castello

Copertina del libro Abbiamo sempre vissuto nel castello, romanzo di Shirley Jackson che esplora il rapporto tra fratelli e sorelle

Cambiamo atmosfera con Abbiamo sempre vissuto nel castello (Adelphi, traduzione di Monica Pareschi) della scrittrice e giornalista statunitense Shirley Jackson (1916-1965), romanzo breve che ci introduce nel mondo cupo e chiuso di Merricat e Constance Blackwood, due sorelle che vivono isolate nella grande casa di famiglia con lo zio Julian, dopo il misterioso avvelenamento che ha ucciso il resto della famiglia.

La loro relazione è il cuore pulsante dell’opera: simbiotica, ossessiva, tenera e disturbante al tempo stesso. Merricat è infatti una diciottenne instabile e legata a doppio filo a Constance, la quale si prende cura di lei con calma e devozione. Ma la loro fragile alleanza contro il mondo esterno è destinata a infrangersi con l’arrivo dell’Estraneo (nella persona del cugino Charles), che porterà a uno sviluppo sempre più perturbante del loro rapporto.

I ragazzi Burgess

Copertina del libro I ragazzi Burgess di Elizabeth Strout

Negli ultimi decenni, tra i libri su fratelli e sorelle che vale la pena segnalare, figura poi I ragazzi Burgess (Fazi, traduzione di Silvia Castoldi), l’ultimo romanzo dell’autrice americana Elizabeth Strout (Portland, 1956), edito nel 2013 e incentrato su tre fratelli del Maine di nome Jim, Bob e Susan.

Con uno sguardo profondo e delicato, il testo si concentra sul loro legame nel corso degli anni, mostrandoci sì le rivalità a cui vanno incontro, ma anche le parentesi di solidarietà e di vicendevole sostegno a cui decidono di non sottrarsi, in particolare quando Susan chiede il loro aiuto per tirare fuori dai guai il figlio Bob. Non solo i tre fratelli saranno allora costretti a riavvicinarsi e a tentare di ricomporre un trauma che alimenta ogni minima increspatura della loro intimità, ma verranno anche travolti da una rivoluzione privata che li porterà a iniziare una nuova vita.

Norwegian Blues

Copertina del libro Norwegian Blues di Levi Henriksen

Passiamo al romanzo Norwegian Blues (Iperborea, traduzione di Giovanna Paterniti) dello scrittore e cantautore norvegese Levi Henriksen (Kongsvinger, 1964), dato alle stampe nel 2017 e che ha per protagonista Jim Gystad, un produttore discografico deluso e stanco della vita, che trova nuova linfa ascoltando il canto degli anziani fratelli Thorsen: Maria, Tulla e Timoteus.

La possibilità di far riunire questo trio ottuagenario, chiuso in un passato di successo e mistero, diventa per lui una missione che lo porterà a rischiare il tutto per tutto per guadagnarsi a poco a poco la loro fiducia e far breccia nel loro antico dolore, mostrandoci come certi rapporti di fratellanza possano portare a ritrovarsi anche dopo tanto tempo, tra alcuni imprevisti che sfiorano il comico e gli scherzi di un destino spietato e beffardo

Dolce nero

Copertina del libro Dolce nero di Charmaine Wilkerson

Byron e Benny, fratello e sorella, non si parlano da anni. A riunirli nella casa di famiglia in California è la morte della madre Eleanor Bennett, che ha lasciato ai figli una insolita eredità: un lungo messaggio vocale che dovranno ascoltare insieme e un dolce tipico dei Caraibi da condividere “quando sarà il momento”.

Si apre così Dolce nero (Frassinelli, traduzione di Maria Luisa Cantarelli e Francesca Pè) della scrittrice statunitense Charmaine Wilkerson, che attraversa generazioni e continenti per parlarci di identità e di radici, di ingiustizie e di conquiste, costringendo i protagonisti a fare i conti con un’inaspettata rivelazione su ciò che credevano di sapere dei loro genitori. Una presa di coscienza che potrebbe dividerli per sempre, oppure riavvicinarli e ricreare l’intesa che li univa da piccoli, realizzando così l’ultimo desiderio di Eleanor.

Uno diviso due. Fratelli e sorelle

Copertina del libro Uno diviso due di Massimo Recalcati, che esplora il rapporto tra fratelli e sorelle

Veniamo ora a un libro che nomina fratelli e sorelle già nel sottotitolo, e cioè Uno diviso due (Feltrinelli), l’ultimo saggio del saggista Massimo Recalcati. Un testo che indaga i conflitti e i tormenti che caratterizzano il rapporto tra fratelli e sorelle, interrogandosi su come si possa divenire alleati al di là del mito della consanguineità, e su come riuscire a realizzare una fratellanza e una sorellanza che non siano preda della gelosia e della rivendicazione aggressiva. Si può dare vita a un legame solidale discreto senza la pretesa che tutto sia condiviso, senza annullare l’esistenza separata dell’Altro e senza volere a tutti i costi costringere la dualità dentro il recinto chiuso dell’Uno?

Tutte domande a cui l’autorevole psicanalista lacaniano risponde sottolineando che non è il sangue la sostanza della fratellanza, e che è fondamentale identificarne quindi la vera essenza.

Il vecchio incendio

Copertina del libro Il vecchio incendio di Élisa Shua Dusapin

Fresco di stampa è anche Il vecchio incendio (Elliot, traduzione di Massimo Ferraris) della scrittrice francese Élisa Shua Dusapin, nel quale – dopo quindici anni di lontananza – vediamo Agathe tornare nel suo Paese natale per aiutare la sorella minore Véra a svuotare la casa di famiglia nella campagna del Périgord. Nel frattempo Véra è molto cambiata: l’afasia che l’ha colpita da bambina c’è ancora, ma oggi è comunque una donna indipendente, che si è presa cura del padre fino alla sua morte e che comunica senza difficoltà tramite lo schermo del suo smartphone.

Tra le due non c’è (e forse non c’è mai stata) intimità, nessuna di loro conosce realmente l’altra, eppure l’affetto della loro infanzia è destinato a riemergere nei piccoli gesti della vita quotidiana, riportando alla memoria ferite e promesse quasi dimenticate…

Sally Diamond la strana

Copertina del libro Sally Diamond la strana di Liz Nugent

E concludiamo questo percorso dedicato ai libri su fratelli e sorelle con Sally Diamond la strana (Vallardi, traduzione di Eva Luna Mascolino), il romanzo già bestseller della scrittrice irlandese Liz Nugent, nel cui incipit la protagonista che dà il nome al libro non capisce perché quello che ha fatto sia così strano: dopotutto ha solo eseguito le istruzioni di suo padre, gettandolo nella spazzatura dopo la sua morte. Improvvisamente sola, Sally si affaccerà al mondo per la prima volta, scoprendo che non sempre le persone dicono quello che pensano e ritrovandosi suo malgrado inseguita da paparazzi affamati di notizie, concittadini petulanti e detective ficcanaso.

Scoprirà così che il passato che aveva voluto dimenticare è pronto a tornare a galla, complici anche le ambigue lettere firmate da un certo S. che compaiono nella sua casella postale: chi le manda? Che cosa vuole? E perché sembra conoscere tutte quelle cose sul suo conto?

Fonte: www.illibraio.it


Dal Senegal alla periferia di Torino: “L’unico finale possibile” di Paola Cereda


Nel romanzo di Paola Cereda L’unico finale possibile (Bollati Boringhieri), il quartiere periferico di Torino di Pietra Alta confina con una delle periferie del mondo contemporaneo: un villaggio nel Senegal dove i bambini diventano adulti presto e i sogni si vestono con le maglie di calcio di atleti che giocano in Europa.

Sembra una connessione improbabile, lontanissima, ma si tratta di una vicinanza emotiva più che geografica, che mette in relazione un quartiere dove già vivono geografie diverse alla vita di Momogol, che arriva dal Senegal per giocare a calcio in Europa, con i documenti e la promessa del benessere, e all’aeroporto di Malpensa scopre il suo reale destino, finendo per viaggiare su un autobus in direzione Torino da irregolare.

Paola Cereda l'unico finale possibile

Cereda scrive: “Il venerdì in cui comincia questa storia, mancano pochi minuti alla fine del turno. Mentre pulisco la macchina dei popcorn, già penso di gonfiare la ruota anteriore prima di rimettermi in sella e, quando attacco a rabboccare le liquirizie, Gioia e il ragazzino che non conosco superano il tornello dell’ingresso e puntano dritti verso lo Sweet Corner […]”.

Momogol bussa alla porta di Casa Aperta, un centro accoglienza in cui lavora Gioia che con Leo, il narratore della storia, condivide un appartamento a Pietra Alta, un presente senza figli e nessun ottimismo per il futuro, e che decide di accogliere il ragazzo in casa, senza dirlo prima, senza un piano, ma solo con una certezza presente: fare qualcosa.

Gioia e Leo sono due trentenni idealisti con cui la vita è stata parca ma non riottosa. Leo vive qualche rimpianto, Gioia vorrebbe dei figli; Leo cerca una via d’uscita, Gioia trova soluzioni tutti i giorni; Leo dice di Gioia che “è una creatura di un altro mondo che prende ciò che trova e regala ciò che ha, in un circuito informale dove le cose sono soltanto cose e devono fare il proprio mestiere”; entrambi credono fortemente solo in una possibilità: quella individuale di fare qualcosa nel mondo, “servire a qualcosa e a qualcuno”, di lasciare una traccia rilevante nelle vite piccole che incontrano ogni giorno, a Casa Aperta l’una e agli allenamenti del River l’altro.

Gioia e Leo sono scritti come due trentenni di oggi che hanno pochissime certezze sul mondo ma sono di quella parte di esseri umani che pensa di poterlo rendere un posto migliore. O almeno impegnarsi a farlo e anche nel modo in cui sono tratteggiati – portatori di sarcasmo, di ironia amara, ma allo stesso tempo anche di romantico entusiasmo – Paola Cereda ci dice che sono i nostri protagonisti ideali e ci convince subito di questo, senza dubbi: non siamo né spaesati né sorpresi nel pensare che Gioia e Leo sono quelli che fanno la cosa giusta e che ci regaleranno il miglior finale possibile.

La storia inizia con loro due che si interrogano sul futuro, nella piccola casa che abitano ma non ci sembrano due persone infelici. Umane sì, a tratti dubbiose, ma non infelici in senso stretto e quando Gioia decide del destino torinese di Momogol la cosa ci appare l’unica soluzione possibile. Ci fidiamo di Gioia e di Leo; è di Momogol che non sappiamo cosa pensare. Come ha fatto a fidarsi delle persone sbagliate? Era talmente chiaro che lo fossero. Come fa a non interpretare l’eroe perfetto dopo tutto quello che Gioia e Leo si impegnano a fare?

Momogol, invece, vive proiettato al futuro. Arriva da un mondo in cui “il campo è la piazza del villaggio, il luogo attorno al quale gli anziani si radunano per guardare la partita e parlare di semina, di siccità o del litigio tra due famiglie che dovrà essere discusso l’indomani sotto il grande albero”.  Cede a una truffa per inseguire il sogno di giocare in Europa, come Sadio Manè, di indossare i suoi scarpini, di tornare al villaggio con il successo nelle tasche e cucito addosso, di ridare a sua madre la fortuna che gli ha concesso, e per fare questo si ritrova perso in uno Stato che per lui non significa niente, in una città in cui non trova nulla di ciò che si aspettava e con il desiderio del Liverpool che non si assopisce. “Momo fa finta di nulla. Prende posto e appoggia la testa al finestrino nella speranza di essere dimenticato: nessuno farà caso a lui se si fa piccolo piccolo, più piccolo, ancora di più, se si mette in un angolo e finge di dormire […]”.

Paola Cereda riesce in una prova niente affatto facile: costringerci a parteggiare spudoratamente per Gioia e Leo perché ci racconta un Momogol a volte ingiusto e imperfetto e noi come loro due vorremmo che il ragazzo facesse esattamente ciò che crediamo sia giusto, che riuscisse nell’impresa di essere una brava persona, che non si cacciasse mai nei guai e imparasse bene l’italiano. In una parola: parteggiamo per l’integrazione piena. Ma l’integrazione non è un processo sommatoria, anzi. Lavora invece per sottrazione e l’ammanco è ciò che muove, latente e vivo, tutto il senso di questo romanzo.

Le vite di Leo, Gioia e Momogol sono raccontate dall’autrice con leggerezza stilistica e con una certa profondità di sguardo, capace di tratteggiare le sfumature delle reciproche relazioni e dopo che per tutta la partita abbiamo fatto il tifo per le due ali Gioia e Leo, aspettiamo da Momo solo il gol. A quel punto deve farlo. A quel punto non ha più scuse.

Il racconto fila piacevole, con capitoli brevi che si susseguono in modo asciutto e preciso, con un lessico mai esausto. La storia procede dipanandosi da un presente in cui  Gioia e Leo ci vengono presentati nelle loro vite routinarie e poi riparte molte volte, da punti diversi per raccontare le ragioni di Momo, quelle di Leo, quelle di Leo e Gioia come coppia e Leo, che ha il compito di raccontare, diventa sempre più presente; la sua voce è prima più remissiva, poi si ingigantisce, spronata da Gioia e dal rimpianto e cerca di raccontare le cose per come sono successe, dall’inizio al triplice fischio, ma qualcosa a un certo punto si perde.

Paola Cereda nella foto di Nicola Nurra
Paola Cereda nella foto di Nicola Nurra

Paola Cereda stessa, in un certo senso, si perde il finale e quindi l’unico finale possibile, quello del titolo certo, ma anche quello del romanzo, combaciano. Non è solo una naturale chiusura quella che l’autrice sceglie, ma anche quella più vera, e proprio quando la finzione della storia è all’apice entra invece la vita reale, si abbandonano i canoni stretti del romanzo e si fa quel che si può, quello che Gioia, Leo e Momogol della realtà chiedono. Questa inversione, che si realizza verso la fine del libro, non lascia niente di intentato e in chi legge nessun tipo di spaesamento. Ci si arriva con la giusta misura.

Oltre a Gioia, Leo e Momogol, L’unico finale possibile ha anche due cori di personaggi: uno vive in Italia, l’altro in Senegal. A Torino, ci sono quelli che abitano il condominio, amici o nemici, il quartiere, il centro accoglienza e la squadra di calcio del River. Nessuno di loro ha una parte fondamentale nello sviluppo della storia ma tutti concorrono a fare da premessa necessaria alle scelte di Gioia e Leo. È anche grazie a queste persone che loro due sono come sono e prendono certe decisioni: tacciono e si ribellano, a seconda dei momenti, ma mai senza una sorta di villaggio che li guarda.

In Senegal, invece, c’è il villaggio vero, quello in cui ogni ragazzino veste la maglia di un campione diverso, in cui la famiglia è fatta di donne che lavorano senza speranza e in cui si insinua il trafficante di turno che promette la gloria in cambio di soldi. Al villaggio di Momogol la fortuna si realizza in pochi attimi: la scelta di una madre di indebitarsi o meno per pagare il futuro del figlio promesso al calcio internazionale, la capacità o meno di arrivare al provino con il selezionatore fasullo senza nemmeno un secondo di ritardo. Non esistono seconde occasioni, non ci sono ripensamenti né rimpianti.

Scrive Cereda: “Vorrei dirgli che niente è perduto e che se davvero lo vuole, può tornare al villaggio anche domani e ricominciare, ricominciare subito, in questo istante perché nella vita contano, eccome, i retropassaggi. I retropassaggi servono a riprendere fiato e ad alleggerire la pressione degli avversari, ma non valgono per tutte le vite. Non è vero che siamo uguali”.

L’unico finale possibile è un romanzo che affronta un tema poco discusso, mal celato forse, e lo fa con intelligenza e dando alla finzione una delle possibilità più grandi: quella di rendere una vita minuscola il centro del mondo, girarci attorno e costruire un discorso, un immaginario.

Fonte: www.illibraio.it


“L’estate che ho ucciso mio nonno” di Giulia Lombezzi: una madre, una figlia e un drago da sconfiggere


Quanto possiamo dire di conoscere i nostri genitori? Di loro abbiamo costruito, giorno dopo giorno, un’immagine dettagliata e mutevole, fatta di modi di dire, abitudini strampalate, pregi e difetti, piccole e grandi incompatibilità, confidenze e vecchi aneddoti. 

A renderci evidente quanto siano incomplete e sfuggenti queste immagini, però, basta poco: la vecchia fotografia di un viso giovane e diverso, oppure l’incontro con un amico di lunga data, mai conosciuto prima – ed ecco che si spalanca davanti ai nostri occhi la vita di una persona quasi estranea, ma che forse è sempre stata lì, assopita, sotto la superficie. 

Alice, la protagonista di L’estate che ho ucciso mio nonno (Bollati Boringhieri) di Giulia Lombezzi (scrittrice, drammaturga e sceneggiatrice) conosce sua madre Marta soltanto nel modo in cui lei si è mostrata ai suoi occhi nel corso dei suoi sedici anni: discreta, solare, una presenza costante e rassicurante, appassionata di piccoli reperti recuperati sulla spiaggia o in discarica, con cui ama creare composizioni insolite e colorate, all’apparenza il suo unico segno di eccentricità.

L'estate che ho ucciso mio nonno di Giulia Lombezzi

Per anni lei e Alice hanno vissuto da sole, dopo il divorzio dal marito e la partenza della figlia maggiore, Federica, alla ricerca di cause perse per cui combattere. Il loro è un legame quieto e pudico (sono pochissime le occasioni per abbracciarsi o scambiarsi affetto) ma ugualmente viscerale. Non una semplice coabitazione, ma un’alleanza naturale e segreta, rinnovata giorno dopo giorno.

Tutto si infrange con l’arrivo in casa di Andrea, il padre di Marta. Alice assiste sbigottita alla trasformazione della sua abitazione (e di sua madre) con l’obiettivo di accogliere al meglio il nonno, fiaccato da un intervento all’anca, rimasto vedovo e senza più capacità di vivere in autonomia: “Nonna era troppo occupata a morire per lasciargli istruzioni”. Un tempo carismatico, altero e piuttosto minaccioso, Andrea è ora un vecchio pieno di acciacchi, rabbioso, insofferente e depresso, pronto a esercitare i rimasugli del suo antico potere per piegare la figlia alle sue necessità.

Alice non riconosce più sua madre in quella donna nervosa, insicura e pronta a sacrificarsi per la salute del padre.

Mentre nella vita famigliare si susseguono uno dietro l’altro badanti più o meno competenti, la scuola termina, e con l’arrivo dell’estate Alice viene risucchiata in una spirale di inerzia, noia e afflizione che ha come epicentro la sua casa, ormai completamente asservita al nuovo ospite.

“La casa è diversa. È in apnea. Come se dalla camera di Nonno – o da Nonno stesso? – promanasse una densità giallastra, un pulviscolo di dolore stizzito che si deposita sui mobili. Accendo incensi. Spruzzo Malizia profumo d’intesa, ma lo spessore dell’aria non cambia”.

La quotidianità di Alice si basa su un mix frastornante di video TikTok, fantasie sessuali, desideri di morte, fumetti e domande esistenziali. A supportarla, da un lato, l’amicizia con Cane e Angiu, tanto spensierata e liberatoria quanto profonda e fondamentale; a disorientarla, dall’altro, la sensazione di aver perso irrimediabilmente il sostegno di sua madre e l’incapacità di capire il suo comportamento ambiguo.

Alice, però, non rimane inerme e spaventata: tutt’altro. Il suo punto di vista, ben tratteggiato da Giulia Lombezzi (già autrice, per Giulio Perrone editore, di La sostanza instabile, finalista al Premio Calvino 2020) è ricco di sarcasmo e spietato come sa esserlo solo una ragazza di sedici anni. I suoi giudizi sono simili a sentenze, ma la sua mente è aperta e sensibile, sempre pronta a rivalutare la situazione alla luce degli ultimi avvenimenti.

 

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Mentre la madre si trincera sempre di più dietro alla sua angoscia inspiegabile, Alice elabora strategie per recuperare la libertà e ristabilire lo status quo, determinata a combattere come un cavaliere impavido contro chiunque si metta sul suo cammino. Non sa ancora quanto la lotta sarà complicata e dolorosa, e che a contrastarla sarà proprio la persona che cerca di salvare.

Più Marta è assente, pallida ed emaciata, più Alice cerca di riaffermare la sua presenza, di tornare visibile agli occhi della madre, cercando nel cibo un senso di sazietà e nel passato le risposte alle proprie domande.

Il suo cammino verso la verità la fa inabissare nell’infanzia e nell’adolescenza di sua mamma, (passata tra la campagna e una piccola cittadina della Liguria), mostrandogliene i lati più oscuri e nascosti.

Intrufolarsi nel passato di Marta è, per Alice, come entrare – non invitata – nella vita di una sconosciuta. Come Marty McFly, Alice vorrebbe tornare indietro nel tempo per correggere il passato, e, con esso, anche il presente di sua madre.

“Io cambio tutto. Torno indietro e cambio tutto.
Lo ammazzo, il tempo. Letteralmente.
A questo dovrebbe servire una DeLorean”.

Nel tentativo di scoprire chi è davvero Marta, la figlia perde sé stessa, trovando invece una rabbia corrosiva, un odio oscuro e pericoloso, pronto a travolgere il carceriere di sua madre, quel temibile Drago che l’ha tenuta rinchiusa in una torre lontana per tutta l’adolescenza, e che ora sembra tornato nella sua vita per ricominciare da capo. Alice vorrebbe soltanto diventare un principe per poterlo annientare.

È possibile spezzare il ciclo di violenza che si ripete, generazione dopo generazione? O il dolore e l’ingiustizia sono destinati a marchiare anche la vita di Alice?

A differenza delle fiabe, Giulia Lombezzi non termina la sua storia con un perfetto lieto fine: la sua prosa smaschera le imperfezioni e le contraddizioni irrisolvibili nei rapporti famigliari, divisi tra ricerca di amore e necessità di indipendenza, bisogno di protezione e desiderio di libertà. In questo caotico turbinio di emozioni, però, si può trovare qualcuno a cui aggrapparsi per non essere spazzati via.

Al termine del loro percorso di ricerca, Alice e Marta si incontrano a metà strada, in un pomeriggio qualunque di fine estate. Trovandosi a vicenda, ritrovano anche loro stesse: finalmente, si vedono. E si riconoscono.

Fonte: www.illibraio.it


“Quel confine sottile”: il debutto nel noir della sceneggiatrice Silvia Napolitano


Capita, ogni tanto, che noi sceneggiatori passiamo a scrivere un romanzo. Capita, forse più di frequente, che passiamo alla regia di un film. Ovviamente, una ragione c’è, ed è la stessa per tutti (almeno credo): noi sceneggiatori non abbiamo il controllo del risultato finale, ed è giusto che sia così.

Il lavoro dello sceneggiatore è un segmento del grande lavoro collettivo che porta alla realizzazione di un film o di una serie. È un mestiere di grande artigianato, che a me (non sempre, ma spesso) piace molto. È la dimostrazione di come, con una buona tecnica narrativa e delle regole ormai collaudate, si possano costruire storie e fare arrivare emozioni: la storia del cinema e della televisione lo dimostrano.

Certo, c’è sempre una gran differenza tra la scrittura per il cinema e quella per la televisione: la scrittura per il cinema è, giustamente, al servizio del regista. La scrittura per la televisione è, giustamente, al servizio del pubblico e della sua dimensione industriale. Dico giustamente perché così dovrebbe essere. Ma spesso le intenzioni non corrispondono alla realtà del risultato finale: a volte, il risultato finale è l’esito di mille compromessi, e capita anche che il pubblico nemmeno lo apprezzi.

Insomma, quando scriviamo per la televisione o per il cinema, noi sceneggiatori sappiamo di essere un tassello del grande affresco della scrittura per immagini, a cui diamo un contributo molto importante, certo, ma non fondamentale.

silvia napolitano quel confine sottile

Ecco, è in questo piccolo aggettivo, fondamentale, che c’è tutta la differenza tra uno sceneggiatore e uno scrittore.

Insomma, uno sceneggiatore deve fare i conti con mille altre cose di cui non è responsabile: la messa in scena, prima di tutto, e poi gli attori (quanto conta il modo in cui un attore dice la battuta che tu hai scritto?), e poi il montaggio, e infine l’editing finale. Uno scrittore, invece, è sempre responsabile di quello che scrive. Dall’inizio alla fine. Non ci sono intermediari.

E allora?

Allora è naturale che uno sceneggiatore abbia una gran voglia di paternità (o di maternità…): sempre che abbia un’identità abbastanza forte e che non abbia voglia di delegare ad altri il risultato finale del suo lavoro.

Ecco, è quello che è successo a me.

Dopo molti anni (forse troppi!) di scrittura ‘al servizio di’, mi è venuta, appunto, una gran voglia di mettermi al servizio di me stessa: o, meglio, delle cose che avevo voglia di raccontare, dei personaggi che avevo voglia di conoscere, al di là dell’attore che lo avrebbe interpretato.

Il risultato di questi desideri è un romanzo.

Ci sono state molte cose inaspettate e del tutto impreviste in questo passaggio dalla sceneggiatura alla scrittura di un libro: la prima, e forse la più importante, è che tutti gli strumenti di lavoro che ho usato per tanti anni, si sono all’improvviso dissolti (pur rivelandosi, alla fine, utilissimi). Per tanti anni, ho applicato regole nella costruzione di una struttura, e ho lavorato a lungo sui personaggi prima di scriverli. Tra l’altro insegno sceneggiatura al Centro Sperimentale di Cinematografia, e insegno ai ragazzi proprio questo: in una sceneggiatura il lavoro, anche molto lungo, sulla struttura di un film o di una serie televisiva, e quello sui personaggi, sono fondamentali. Ed è vero, ci credo fino in fondo.

 

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Ma il romanzo mi ha fatto scoprire la libertà della scrittura: sicuramente questo è stato possibile dopo molti anni di esperienza di strutture e personaggi, eppure non avrei mai pensato che questa libertà potesse essere così totale. Ho scritto questo libro a flusso, senza scaletta (nonostante fosse un giallo), e senza aver deciso nulla dei personaggi: sono stati loro che sono arrivati sulla pagina, e mi hanno guidato a scoprire le loro vite, i loro lati oscuri, i loro traumi. Io li ho solo seguiti. A volte hanno fatto cose che non mi aspettavo, e mi hanno trascinato nelle loro esistenze senza nessun pudore.

E naturalmente hanno aperto anche le mie porte sconosciute, mi hanno fatto scoprire territori che non conoscevo. Certo, non è stato facile resistere alla tentazione di seguire un personaggio magari minore, ma che mi incuriosiva molto: ho cercato il più possibile di mantenere la compattezza della storia e la logica dei fili che legavano tra loro i personaggi. Su di loro non ho mai dato giudizi, come del resto faccio nella vita: insomma, li ho amati molto, tutti. E la sensazione che potranno arrivare a chi legge così come li ho scritti è una gran bella sensazione.

L’AUTRICE – Silvia Napolitano è nata a Napoli, ha vissuto un po’ a Milano, molto a Bari, e ora vive a Roma. Scrive per il cinema e la televisione, e ha scritto film, tv-movie, e serie (tra le ultime: I bastardi di Pizzofalcone tratta dai romanzi di Maurizio De Giovanni e Mina Settembre, diretta da Tiziana Aristarco). Ha fatto parte della giuria del Premio Solinas per vent’anni, e insegna Sceneggiatura al Centro Sperimentale di Cinematografia. Ora è al debutto nella narrativa con Quel confine sottile, che inaugura Black Note, la nuova serie di narrativa noir, italiana e straniera, di Bollati Boringhieri.

Veniamo alla trama del suo giallo: Fabrizio Mieli, psicoanalista, ha in cura Zac, un ragazzino schizofrenico di quattordici anni, bello come un elfo e che ha per amici solo bambini morti. Un giorno Zac gli racconta di aver trovato nel fiume il corpo senza testa di un’adolescente: un cadavere vero, questa volta, non uno dei suoi fantasmi. È quello di Juliette, tredici anni, francese, scomparsa da un campeggio appena fuori Roma qualche giorno prima. Nessun indizio, nessun testimone.

Bruno Ligabue, commissario solitario e con un macigno nel cuore, inizia a indagare, e presto scopre che il proprietario di un bar frequentato da giovanissimi offre da bere, e forse altro, a ragazzine che non sanno dir di no. È una pista, la prima. Ma con Ligabue non è d’accordo Agostina Picariello, la PM che si occupa del caso, donna brusca e decisamente poco conciliante. Il conflitto tra i due è immediato, istintivo: Agostina, infatti, è convinta che sia stato Zac, il ragazzino che l’ha trovata, a uccidere Juliette, mentre il commissario dissente profondamente.

Due piste, due caratteri, due visioni del mondo opposte. Ma Ligabue e Picariello sono assai più simili di quello che pensano: man mano che l’indagine va avanti emergono gli errori, le paure, le mancanze di entrambi. La scoperta dell’assassino passerà per vie misteriose e oscure ma, in questo romanzo corale in cui le vite dei personaggi si intrecciano, insieme alla soluzione del caso anche le verità più profonde di ognuno di loro affioreranno come era affiorato il cadavere di Juliette dal fiume: quella del commissario Bruno Ligabue, una vita solcata dal dolore più profondo che si possa immaginare, e tenuta in piedi grazie alla tenacia e alla passione per il lavoro; e poi quella di Fabrizio, psicoanalista irrisolto; di Raimondo, medico legale scorbutico ma pronto all’amicizia; di Brenda, donna dal carattere forte che stanerà Ligabue dal suo isolamento; di Aurora, luminosa mamma di Zac; dei due coniugi vicini di casa del commissario, anziani e premurosi. E ancora, la verità di ragazzine fragili e insicure, e di un cane psicotico che si fa carico della guarigione propria e di Bruno.

Fonte: www.illibraio.it


L’unico modo che conosco di non essere più figlia – di Eleonora Daniel


Una premessa: io non esisto come madre, esisto solo come figlia – e il mio universo di figlia è peraltro mutilato dal lutto, ma questa è un’altra storia.

Non so dire se sarò madre. Mi piace pensare di essere ancora giovane anche solo per pormi la questione; ignoro il fatto che alla mia età non sarebbe così strano avere figli (ma: potersi permettere un tetto, la crisi climatica, l’egoistica spinta alla solitudine, trovare una stabilità economica e relazionale, costruire me prima di dedicarmi a un’altra persona, eccetera).

Non solo. Mi rendo conto, ora che ci rifletto, di aver passato la mia età adulta a sentirmi bambina (figlia). Suppongo sia una sensazione condivisa da buona parte delle mie coetanee e dei miei coetanei – noi Peter Pan forzati: non vittime di un revival adolescenziale alla soglia dei quarant’anni, ma costretti a far convivere responsabilità e infantilismi nelle nostre case condivise, a conoscere l’adultità solo come gioco precario. Siamo undicenni eterni che scalpitano per essere ammessi al tavolo dei grandi.

eleonora daniel la polvere che respiri era una casa

Quanto a me, sono stata e tuttora sono più piccola rispetto a buona parte dei miei amici, dei miei compagni di studio, dei colleghi che ho avuto in quasi tutti i lavori che ho svolto, e mi sono abituata al fatto che la mia età percepita rosicchi almeno tre anni a quella anagrafica. Sembri più piccola! (ma ancora, ma perché), rispondo: l’Eleonora del futuro sarà contenta di sentirlo. Penso: arriverà un momento in cui finalmente mi sarà concesso di crescere. Forse il momento è questo. Assumersi la responsabilità (paternità) delle proprie parole è un buon punto di partenza per diventare grandi. Credo.

Comunque sia, La polvere che respiri era una casa non ha la pretesa di essere una storia sulla genitorialità. Non perché io parta dall’avvilente assunto che si possa scrivere solo ed esclusivamente di ciò che si conosce, ma perché lo direi piuttosto un libro sulla capacità di essere generativi, nella misura in cui qualsiasi costruzione lo è: un edificio, una ricetta, i lego, una fiaba, un amore.

La polvere che respiri era una casa è una storia sul concepire (!), persino il vuoto, persino i silenzi, e, per assurdo, sull’accogliere l’inconcepibilità di determinati gesti. In tutto questo, avere un figlio è solo una metafora, e dunque una scusa.

È con questa scusa che posso continuare a parlarne. A un certo punto del romanzo, uno dei due protagonisti dice all’altra che nelle sue prime fasi di vita un libro è un po’ come un bambino, perché ancora in formazione.

Sposterei più avanti la similitudine: un libro è un po’ come un bambino perché per un certo periodo resta in formazione (gestazione, cova), e poi non più. Poi: si allontana, entra nelle case degli altri, crea un mondo a parte estraneo a chi lo ha creato.

 

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Ne scrivo con la stessa confusione con cui mia madre tende a spiegare il lavoro che faccio alle sue amiche,[1] costretta a rassegnarmi al fatto che racconterà (il libro, ma anche mia madre) una storia diversa dalla mia.

Forse lo scarto tra i legami è questo: accettare il fatto che la stessa storia in una bocca diversa diventerà un’altra storia. La polvere che respiri era una casa smetterà di raccontare quello che volevo dire nel momento in cui il primo lettore lo aprirà – in parte è già stato così. Dirà, spero, tanto altro, e non vedo l’ora di scoprirlo. Almeno fino a oggi, è l’unico modo che conosco di non essere più figlia.

[1] Ops. Ciao mamma!

L’AUTRICE – Nata a Milano nel 1995, Eleonora Daniel vive a Roma, dove si è specializzata in editoria. Attualmente è caporedattrice e editor di Accento edizioni. Dopo che alcuni suoi racconti e articoli sono apparsi su diverse riviste, ora arriva in libreria per Bollati Boringhieri il suo primo libro, La polvere che respiri era una casa, definito un “romanzo che parla la lingua universale dei sentimenti”.

Un debutto che narra la storia di una relazione come tante: due ragazzi che si innamorano, si trasferiscono, si amano di un amore umano, domestico e imperfetto, sognano, si contraddicono, progettano una casa e un futuro. Un giorno, accanto a una tavolata di bambini al ristorante, avvertono una sensazione nuova: vogliono un figlio. Ma le cose non vanno come vorrebbero e le loro speranze si rivelano più difficili da affrontare del previsto..

Eleonora Daniel propone una narrazione che spazia tra diversi stili e voci narranti, e sviscera i due punti di vista di una coppia, decostruendo ogni banalità e facile romanticismo.

Fonte: www.illibraio.it


“Black Note”: la nuova serie di Bollati Boringhieri per chi ama gialli e crime


Nel 2025 in arrivo un nuovo progetto in casa Bollati Boringhieri, che già da tempo pubblica gialli – e crime e noir – tra i suoi libri di narrativa, e che dal nuovo anno raccoglierà queste uscite in un contenitore più omogeneo, per renderli immediatamente riconoscibili ai cultori del genere: parliamo di Black Note, “la nota nera, la nota scura: non dunque la nota blu, quella malinconica del blues o del jazz, ma quella dark che permea i testi che abbiamo selezionato per questa nuova serie di Varianti”, si spiega nella nota della casa editrice torinese

Saranno libri, quattro titoli nel 2025, “con una speciale attenzione alla cura della scrittura, alla profondità dello sguardo, all’originalità dell’intreccio, crimini e misteri da svelare in un caleidoscopio di storie e personaggi appassionanti”.

quel confine sottile silvia napolitano black note

A febbraio Bollati Boringhieri inaugura Black Note con un esordio: Quel confine sottile di Silvia Napolitano, il primo romanzo della sceneggiatrice di celebri serie tv, tra le quali figurano I Bastardi di Pizzofalcone e Mina Settembre. Il protagonista di questo giallo è Zac, un ragazzino schizofrenico di quattordici anni i cui unici amici sono bambini morti immaginari che vede solo lui. Un giorno però Zac un cadavere lo trova davvero. Un corpo decapitato nel fiume, quello della tredicenne francese Juliette. In questo romanzo corale le vite dei personaggi si intrecciano come fili di un unico tessuto tenuti insieme da un delitto da risolvere. C’è lo psicoanalista di Zac, Fabrizio Mieli. C’è un commissario solitario, Bruno Ligabue. Una PM dal carattere impossibile, Agostina Picariello. Esistenze particolari e diverse che però condividono mondi di dolore che si sovrappongono al dramma di Juliette…

Ad aprile la serie Black Note si arricchirà di un altro esordio, Cos’è successo a Ruthy Ramirez? di Claire Jiménez, romanzo vincitore del PEN/Faulkner Award 2024 “per l’efficacia con cui ha reso il mondo femminile e rappresentato la rabbia delle donne e il loro coraggio”. Cos’è successo a Ruthy Ramirez? è il “vivido ritratto di una famiglia di origine portoricana residente a Staten Island, che esplora i legami familiari tra le donne e i cicli di violenza generazionale e razzista di cui esse sono vittime. Alla base delle loro difficoltà quotidiane e della loro vita in frantumi c’è un trauma irrisolto: Ruthy è scomparsa a tredici anni dopo l’allenamento di atletica, e da dodici anni la sua famiglia non riesce a darsi pace. Una sera Jessica, la sorella maggiore, è convinta di aver riconosciuto Ruthy in un reality show alla tv. Sarà davvero lei? Un gomitolo di storie femminili in cui regnano il risentimento e la tenerezza, la difficoltà, la paura ma anche l’amore”.

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A giugno la collezione noir accoglierà un nuovo libro dell’autrice bestseller Shari Lapena, Qui tutti mentono, sulla manipolazione all’interno dei legami famigliari e sui misteri che vi si celano. Cosa succede se non si può più credere alle persone che si amano? Il romanzo di Lapena “mette in scena un’indagine complicata in cui tutti gli abitanti di una tranquilla comunità rivelano un volto oscuro e sembrano mentire per coprire i propri segreti”. Un graduale accumulo di colpi di scena fino alla rivelazione finale.

Infine, a ottobre, Black Note ospiterà Prova a sfidarmi di Megan Abbott (già autrice di Giri di danza, Bollati Boringhieri 2024) un romanzo sul cheerleading e sugli aspetti più deteriori della competitività: le sedicenni Addy Hanlon e Beth Cassidy, amiche da sempre, sono cheerleader sin da bambine e ora fanno parte della squadra del loro liceo. Quando la nuova allenatrice della squadra Colette French arriva nella loro scuola trasforma però le ragazze in guerriere e rivali. L’apparente tranquillità che regnava alla Sutton Grove High School viene sconvolta da bugie, omicidi, suicidi, ossessioni e giochi di potere. Da questo libro è stata tratta l’omonima serie Netflix.

Fonte: www.illibraio.it