“L’università sia più coraggiosa”: giovani e futuro nell’intervista a Ferruccio Resta

di Elena Asquini | 09.04.2021

Rettore del Politecnico, Ferruccio Resta è l'autore di "Ripartire dalla conoscenza. Dalle aule svuotate dal virus alla nuova centralità dell'Università - Dialogo con Ferruccio de Bortoli", un libro che guarda alla pandemia come all'occasione per riformare il sistema universitario. In un'intervista con ilLibraio.it, il presidente della CRUI parla dei giovani, "i più colpiti, perché questo periodo è capitato nel loro momento di massima formazione", gli studenti che hanno perso "le relazioni sociali, il confronto, che nella fase di crescita è indispensabile" poiché costituisce "il bagaglio che serve a una persona per crescere". Riflette anche sulla necessità di ritornare nelle aule e nei campus senza dimenticare "quell’equilibrio tra la presenza e il digitale", pensando a "nuovi competitors, una nuova mobilità studentesca, un pricing delle università internazionali diverso; una geopolitica della formazione completamente ribaltata". E aggiunge: "Credo però che la nostra università debba essere più coraggiosa a cambiare se stessa... debba osare di più" - L'intervista, in cui si parla anche dei fondi del Recovery Plan, della fuga dei cervelli e di opportunità da non perdere...


Ingegnere, Rettore del Politecnico di Milano e Presidente della CRUI (la Conferenza dei Rettori delle Università Italiane), Ferruccio Resta, bergamasco classe ’68, è l’autore di Ripartire dalla conoscenza. Dalle aule svuotate dal virus alla nuova centralità dell’Università. Dialogo con Ferruccio de Bortoli (Bollati Boringhieri), un libro che riflette sul sistema dell’istruzione, sull’impatto che la pandemia ha avuto su di esso e sull’occasione che si presenta per innovare l’università italiana.

Sotto forma di una conversazione condotta dall’ex direttore del Corriere della sera e del Sole 24 ORE, e attuale presidente della casa editrice Longanesi, Ferruccio de Bortoli, il testo prende le mosse dai primi tempi dell’emergenza sanitaria e dall’urgenza di stabilire la didattica a distanza: all’indomani di questa esperienza, Ripartire dalla conoscenza guarda alla pandemia come a un’opportunità di riscatto, riforma e ripensamento del sistema dell’istruzione, auspicando un ritorno in presenza che tenga tuttavia conto della lezione del digitale e delle opportunità che presenta per ampliare la formazione dei giovani.

ilLibraio.it ha intervistato Ferruccio Resta, per parlare di loro, dei giovani, del sistema universitario, degli studenti e di come pensare al loro futuro, il futuro del Paese.

Ferruccio Resta Università Ripartire dalla conoscenza
L’APPUNTAMENTO CON LIBLIVE – Giovedì 12 Aprile alle 18 Ferruccio Resta e Ferruccio de Bortoli parleranno del libro collegati dal Piccolo Teatro di Milano. L’incontro sarà visibile sulle pagine Facebook del Libraio e del Politecnico di Milano

Rettore, nel libro parla dell’effetto che la pandemia ha avuto sulla vita dei giovani e degli studenti. Qual è stato il problema più grave a riguardo?
“Direi che le principali problematiche sono due. Per prima cosa i giovani risentiranno di più di questo periodo, perché noi adulti lo dimenticheremo presto e le persone anziane che oggi stanno soffrendo sono più pronte a ripartire. In secondo luogo i ragazzi saranno i più colpiti, perché tutto questo è capitato nel loro momento di massima formazione, e la cosa più grave è aver tagliato loro completamente le relazioni sociali, il confronto, che nella fase della crescita è indispensabile. Per lo studente universitario, che entra nella vita dell’università uscendo dalla comfort zone, confrontarsi per la prima volta con la diversità culturale, sociale, etnica e religiosa è un aspetto fondamentale della crescita personale, decisivo per la formazione dell’uomo e della donna, prima ancora che professionista”.

Si riferisce alla didattica a distanza? O alla vita sociale al di fuori delle università?
“Entrambe. Quando parlo delle relazioni sociali penso alle 24 ore al giorno per 7 giorni a settimana per 365 giorni l’anno. Mi riferisco, oltre che al sistema universitario, anche a quello culturale, di confronto, di apertura internazionale, sia per studio sia per piacere, tutto ciò che costruisce il bagaglio che serve a una persona per crescere”.

Tutte cose a cui abbiamo dovuto rinunciare.
“Io, nei primi mesi del lockdown, avevo sempre sostenuto che se la pandemia fosse stata limitata nel tempo, 4 o 5 mesi, il valore di crescita di una simile esperienza poteva anche supplire all’assenza di alcune cose; avremmo vissuto tutti una pagina di storia e anche i giovani avrebbero interiorizzato il valore di certi benefici che prima davamo per scontato: una pizza con gli amici, un parco dove andare a correre; bloccare quelle piccole cose, per un periodo limitato, poteva anche innescare una crescita. Tuttavia, avendo oggi la pandemia una durata maggiore di un anno e tendente all’anno e mezzo, questo beneficio, che pure ci sarà, risulterà molto inferiore rispetto a quello che l’ultimo anno ci ha tolto”.

Quello dei fondi del Recovery Plan è stato uno degli argomenti più discussi nei primi mesi del 2021. Crede che sarebbe possibile utilizzarli per salvaguardare il futuro dei giovani in questo Paese?
“Credo che nella decisione di dove investirli sia giusto svolgere un’analisi di quanto possono essere produttivi: investo un euro per acquisirne in futuro. Se questa è la logica, investirli sui giovani vuol dire investirli sulla produttività di domani, quindi misurare le azioni del Recovery in base all’impatto che hanno sui giovani potrebbe essere un’ottima cartina tornasole, proprio per verificare se stiamo facendo delle scelte lungimiranti. È chiaro che un’azione di cui beneficio io e basta è meno lungimirante e meno coraggiosa rispetto a un’azione di cui beneficiano i nostri figli; lo strumento per misurare quanto saranno efficaci le azioni del Recovery è proprio questo, valutare il loro impatto sui giovani”.

Alla luce dell’ultimo anno, quale ritiene si siano rivelate le principali falle del nostro sistema universitario?
“Guardi, da presidente dei CRUI e da Rettore del Politecnico devo dire che il sistema universitario tutto sommato ha risposto bene: stavamo partendo con il secondo semestre dell’anno accademico 19/20 e, in qualche settimana, chi più chi meno, abbiamo garantito una didattica a distanza che oggi diamo tutti per scontata, come diamo per scontato che io e lei ci parliamo attraverso un video, e che se non ci fossimo collegati su Meet saremmo passati a Teams; se ce l’avessero detto un anno fa, li avremmo presi per pazzi. Le università sono state uno dei vettori fondamentali di questo processo”.

Perché?
“Siamo stati i primi a mettere in partica quello che poi è diventato lo strumento per le scuole, il lavoro, le chiacchierate con amici e genitori. Abbiamo garantito un semestre, gli esami, le lauree. Certamente l’autunno scorso, all’inizio del primo semestre, c’è stata meno efficacia da parte del sistema universitario; probabilmente perché eravamo, e siamo, tutti più stanchi e, dopo essere ripartiti in una pseudo-presenza, la seconda ondata di ottobre ci ha tagliato le gambe. Però falle grosse non ne vedo, quello che vedo è un rischio importante”.

Quale?
“Che l’università, oggi, non si prepari a un post-Covid, a che cosa sarà l’università dopo la pandemia, quando dovrà confrontarsi con un ritorno alla presenza e ricostruire una comunità all’interno dei propri spazi ma, nello stesso tempo, non dimenticare il digitale; anche perché il digitale comporta la possibilità di avere un allargamento della comunità, delle esperienze e delle relazioni. Quell’equilibrio tra la presenza e il digitale è il rischio che vedo nei prossimi anni per le singole università, con l’affacciarsi di nuovi competitors, una nuova mobilità studentesca, un pricing delle università internazionali diverso, una geopolitica della formazione completamente ribaltata”.

Quindi, delle procedure adottate durante la pandemia per permettere agli studenti di continuare gli studi, ce ne sono alcune che vorrebbe mantenere?
“Certamente sì. Ce ne sono state alcune buone, penso alla didattica a distanza, alcune meno riuscite, diciamolo, perché bisogna essere onesti: tutta la parte esami è stata un giubbotto di salvataggio in un mare in tempesta e bisogna tornare ad avere un momento di colloquio di persona. Io stesso, oggi, quando faccio gli esami faccio fatica a capire se lo studente o la studentessa ha un momento di difficoltà momentaneo, oppure se si tratta un problema di preparazione, per non parlare degli scritti. Però ci sono altre cose estremamente interessanti che si dovranno mantenere”.

Per esempio?
“Penso alla possibilità di portare nelle aule testimonianze del mondo del lavoro e internazionali: aver attrezzato le aule digitali ci permette di chiedere un intervento esterno, discuterlo, proporre un’apertura maggiore. Penso ai tanti strumenti che abbiamo messo a disposizione degli studenti che hanno disabilità o difficoltà di apprendimento: avere delle registrazioni, magari non di altissima qualità, e la cosa andrà migliorata, certamente aiuta lo studente e la studentessa con difficoltà, permette di recuperare, fare tutoring e via dicendo. Ci sono tanti aspetti del digitale che, pur tornando all’università in presenza, con la vita dei campus, si possono mantenere”.

Quale dovrebbe essere il ruolo delle università nella ricerca di lavoro degli studenti alla fine del corso di studi?
“Credo che sia indispensabile che le università si prendano carico di questo aspetto, per tanti motivi. Il primo è che, fino a qualche anno fa, la prima occupazione avveniva sostanzialmente tramite passaparola o conoscenza diretta, più che con le richieste di assunzione. È chiaro che questi metodi sono diventati obsoleti, inadeguati a una società moderna in cui la comunità è molto più ampia e non stiamo lavorando solo all’interno del nostro piccolo perimetro, siamo soggetti a un maggiore network di relazioni in ingresso e in uscita; quindi il canale di Career Service, o un altro canale universitario, è indispensabile. Secondo le statistiche al Politecnico, oggi, più del 50% della prima occupazione è guidata dal Career Service, che è un’enormità visto che cinque, sei anni fa, non un’era fa, era meno del 15%. Quello è il trend. Ma le direi di più: dobbiamo anche cambiare il modello di entrata sul posto di lavoro”.

A cosa si riferisce?
“Prima immaginavamo che ci fossero due fasi della vita: una in cui si studia e una seconda fase, come se ci fosse una linea del Piave oltre la quale uno smette di studiare ed entra nel mondo del lavoro. Ecco, non è più così. Non c’è più questa linea che scandisce la nostra vita in maniera netta”.

Come mai?
“Intanto perché, spesso, gli studenti universitari sono esposti al mondo del lavoro durante gli studi, ma soprattutto perché durante la vita professionale ci sarà bisogno di una continua formazione. Non è uno slogan il Life Long Learning, la formazione continua; nel momento in cui la società e le tecnologie cambiano rapidamente, troppo rapidamente per la nostra formazione, questa deve continuare. Ci saranno mille modi per farlo, ma l’università dovrà considerare i propri studenti non dal giorno dell’immatricolazione fino a quello della laurea, ma fino alla pensione”.

Lei come immagina un simile cambiamento?
“Penso che cambi il modo in cui l’università deve ragionare verso la comunità e, da un lato, il cambiamento deve venire dall’impresa; l’azienda che viene al Politecnico perché non trova i laureati e io devo risponderle che è troppo tardi, doveva muoversi prima, con borse di studio per investire da subito nel percorso di formazione degli studenti e delle studentesse: non è responsabilità solo dell’università e del fondo di finanziamento ordinario, è il mondo del lavoro che deve farsi responsabile del processo; deve entrare nei percorsi di formazione attraverso borse di studio, attraverso Grant, attraverso iniziative di cui tutte le università hanno bisogno. Dopodiché le università dovranno continuare a seguire i loro alunni, ex laureati, ben oltre il corso di studi, per tutto il percorso di formazione”.

Da quanto dice sembra che il modello a cui fa riferimento sia quello americano, non quello più tradizionalmente italiano. Pensa che dovremmo prendere esempio?
“Penso che non abbiamo nulla da invidiare per quanto riguarda il nostro sistema universitario e la preparazione dei nostri studenti, che lo dimostrano sempre, non con i ranking, ma con la qualità messa in campo quando vanno a confrontarsi con i loro coetanei. Credo però che la nostra università debba essere più coraggiosa e pronta a cambiare: abbiamo paura del cambiamento, siamo diffidenti rispetto alle novità, cerchiamo di mantenere dei privilegi e, rispetto alle realtà internazionali, quello che consiglio è di osare di più, perché ce lo chiedono le nostre studentesse e i nostri studenti. Non possiamo insegnare a fare innovazione, non tecnologica, ma in quelle che sono le sfere sociali, economiche e tecnologiche, se non lo facciamo noi stessi. È a questo che la nostra università dovrebbe guardare con interesse quando porta lo sguardo oltre le Alpi”.

Si è parlato per tanti anni, ben prima della pandemia, della famigerata “fuga di cervelli”. Secondo lei c’è qualcosa che può essere fatto per fermarla?
“Guardi, la stupirò, ma credo che se vogliamo tarpare le ali ai nostri ragazzi e ragazze nella mobilità internazionale stiamo sbagliando. Se vogliamo impedire ai nostri laureati di fare delle esperienze internazionali stiamo sbagliando. È giusto e proficuo per loro un percorso internazionale di crescita, la mia generazione non l’ha fatto, non tutti, siamo una generazione di transizione, tra quelli per cui era normale non farlo e quelli per cui invece è normale farlo e, secondo me, il nostro Paese ha sofferto questa mancanza. Il vero problema non è non far partire le persone”.

Qual è il vero problema?
“Fare in modo che scelgano l’Italia come una destinazione, fare in modo che le nostre città, i nostri territori, le nostre imprese e le nostre istituzioni siano una meta ambita. Questo è il punto. Se ci riusciremo il flusso non sarà solo in uscita, ma anche in entrata, sia in partenza sia in arrivo; e in tanti rientreranno”.

Non trattenere, ma attirare.
“Sì. Penso che sia indispensabile essere attrattivi di capitale umano giovane, affinché un Paese, un’istituzione, un territorio cresca e, proprio perché lo credo davvero, penso che sarebbe necessario sottoporre tutti gli studenti universitari, tutti, almeno a sei mesi all’estero. Rendere possibile l’esperienza internazionale durante gli studi sarebbe molto significativo, perché permetterebbe allo studente di viverla nel corso della formazione, rientrare, laurearsi e a quel punto scegliere il lavoro. Che il lavoro sia in Italia o all’estero non ha importanza, va bene ovunque, però non si dovrà più smarcare quella tappa, quell’esperienza formativa. Naturalmente servono borse di studio, destinazioni di qualità e, soprattutto, un cambiamento dell’università, per lasciare liberi i suoi studenti di fare quest’esperienza fuori dall’Italia”.

Qual è il suo auspicio per un’università, e un’Italia, post-covid?
“Che non si perda l’occasione. Che non ci si ritrovi io e lei tra qualche anno, nel 2025, e guardandoci indietro si dica mah, noi l’occasione l’abbiamo avuta… L’occasione di ripartire dalle macerie, di avere delle risorse come quelle del Recovery, che vanno ben oltre quelle del Piano Marshall, delle risorse incredibili. Credo che l’auspicio sia veramente non ritrovarci noi due qui, tra cinque anni, chiedendoci come abbiamo fatto a non fare quelle riforme, sulla sanità, sulla giustizia, sulla pubblica amministrazione, sulla scuola, che dicevamo che avremmo fatto. Si tratta di un’unica grande possibilità: farlo rapidamente. Qui non serve fare l’ottimo, discutere per anni se è meglio fare così o è meglio fare in un altro modo, bisogna prendere una decisione, magari una che non tutti condividiamo, ma prenderla. Cosa che, purtroppo, non siamo bravi a fare”.

Perché?
“Tendiamo a focalizzarci sulle diversità invece che sugli aspetti che ci accomunano. Eppure viviamo in un Paese che ha dei valori comuni, potremmo lavorare su quelli e su quelli costruire”.

Si è tanto parlato, e ancora si parla, di cosa ci lascerà questo difficile momento storico. Lei crede che impareremo qualcosa?
“Non lo so. Io ho imparato un po’ di umiltà, ho imparato che spesso siamo incompetenti, nel senso che non sappiamo, siamo ignoranti, non sappiamo gestire le cose; davamo per scontato di saper fare alcune cose e invece ci siamo trovati davanti a dei limiti che ci costringono a studiare, a formarci. Spero che questa esperienza insegni a tutti un po’ di umiltà, perché non è un punto di arrivo, ma punto di partenza, dal quale avviare una crescita. Che poi accada veramente non lo so. Come dicevo, ci rivediamo tra 5 anni, vedremo se abbiamo fatto fruttare bene il Recovery, se siamo diventati più bravi a metterci in discussione”.

Fonte: www.illibraio.it