Il commissario Maigret

di Hans Tuzzi | 09.03.2020

Lo scrittore Hans Tuzzi (che torna in libreria con "Nessuno rivede Itaca") racconta il commissario Maigret, celebre personaggio nato dalla fantasia di Georges Simenon, protagonista di romanzi e racconti e amato anche dal cinema e dalla tv


In quale momento storico nasce, Maigret?

Gli anni fra le due guerre mondiali sono l’età dell’oro del romanzo giallo. Apre Hercule Poirot nel 1920 e chiude Philip Marlowe nel 1939. In mezzo: Philo Vance nel ’26, nel ’27 il Continental Op che lanciò l’hard boiled, nel ’29 Sam Spade – che lo perfeziona – e Ellery Queen, nel ’35 Nero Wolfe e Archie Goodwin che fondono giallo deduttivo e giallo d’azione, e, sempre nel ’35, l’italiano commissario De Vincenzi. Un lustro prima di De Vincenzi, a Parigi aveva esordito un altro commissario, Jules Maigret.

Ed è curioso il fatto che nei paesi anglosassoni, fiduciosi nelle istituzioni, l’eroe sia un privato in competizione più o meno dichiarata con una polizia ottusa quando non addirittura corrotta, mentre in Francia e Italia il successo dell’indagine sia affidato a rappresentanti ufficiali di quello Stato vissuto spesso come ostile.

Ci tornerò sopra.

Personaggio vivo, a tutto tondo, come dimostra il fatto che nessuno dei molti attori che lo hanno impersonato riesce a soddisfare pienamente le aspettative del lettore-spettatore, Maigret si precisa nel tempo: massiccio, tenace, taciturno, condivide con Giovanni Pascoli un padre amministratore di tenuta nobiliare. Un contadino del Bourbonnais elevatosi socialmente nel rispetto delle gerarchie. Nel 1895, ancora bambino, resta orfano di madre; fa il chierichetto, e da adulto sa come rivolgersi ai religiosi secondo ordine e grado ma nelle oltre cento inchieste condotte, lo vediamo entrare in chiesa occasionalmente, solo per lavoro. Entra in Polizia nel 1909, poco più che ventenne, dopo pochi anni di Medicina all’università di Nantes.

(anche il medico per combattere il male deve conoscerlo, giusto?)

Alto un metro e ottanta (molto, per l’epoca) è “grosso e imponente come un facchino delle Halles”: massiccio come un bove, ne ha a volte lo sguardo inespressivo. Ama camminare, frequenta pochi amici, talvolta si concede un cinema con la troppo paziente moglie Louise, alsaziana, ottima cuoca. Non sfoggia cultura, ma in un’occasione conclude la citazione dall’Enrico VI iniziata da un collega di Scotland Yard.

Laconico, brusco, monogamo, insofferente dell’apparire è quasi in tutto l’esatto contrario del suo creatore, il fatuo egotista Georges Simenon. Il quale considerava “i” Maigret “romanzi alimentari”: alla fine della guerra, firmato un contratto con Gallimard per i suoi “romanzi-romanzi”, liquiderà il commissario senza rimpianti. Lo riprenderà per pura necessità economica, sono i Maigret che gli consentono il dispendioso livello di vita.

Cambia qualcosa, dopo quella breve cesura? Se ho modo, ne parlo dopo.

[primo stacco]

Cambia qualcosa, dopo la breve interruzione del dopoguerra, nella leggendaria metodica mancanza di metodo di Maigret? Sin dal primo titolo, Pietro il Lettone, uscito in rivista nel 1930 e da Fayard l’anno dopo, Maigret si nutre della tecnica letteraria di Simenon. Tecnica in arte di levare: tutto è detto con parole semplici; tutto è descritto in una frase, e più spesso suggerito in un solo aggettivo che obliquamente colpisce il nostro subconscio, proprio come nei “romanzi-romanzi”, dove il lettore è portato a farsi delle convinzioni in base al sottaciuto. Le prime trame di Maigret sono ricche di colpi di scena che nel tempo si attenuano a favore delle atmosfere. Se molti morti, in un giallo, possono essere sintomo di debolezza narrativa, Simenon ne fa il minimo uso necessario. Se giallo vuol dire ritardare il più possibile la soluzione – e tanto meglio quanto più imprevedibile – nei Maigret del secondo dopoguerra la trama diventa quasi un assedio etico ed empatico del commissario verso i colpevoli, un paziente e tenace portarli alla confessione spontanea. Nulla di più lontano dal whodunit, anche se a volte, come in Maigret al Liberty Bar, Simenon abusa del lettore. C’è chi sostiene che Maigret non giudica. Sciocchezze. Per comprendere un fenomeno, insegna il metodo psicologico, bisogna entrare in sintonia con esso: per estirpare il male bisogna entrarne al cuore. Ma l’empatia che il commissario prova per vittime e colpevoli non esclude, come scrive  Camilla Baresani, ch’egli sia “posseduto da un senso morale profondo e radicato”.

Maigret non è grande letteratura ma è solida narrazione e forse proprio per questo è più difficile individuare, nei 75 romanzi, picchi basati sulla trama come invece accade con Poirot, personaggio non tondo ma piatto, per rifarci a Forster, dove la modesta Christie si risolve tutta nella trama, sia che l’assassinio venga commesso sull’Orient Express o sul Nilo o dallo stesso narratore.

Poi, certo, si possono operare ulteriori tassidermie. I Maigret parigini e quelli in provincia; quelli di terra e quelli di acqua; quelli americani; quelli dei quartieri popolari e quelli dei quartieri alti, così poco amati dal piccolo borghese Simenon.

Infine, ma qui la critica non ha prove provate, quelli che l’autore scrisse carburandosi a birra e quelli a gin o whiskey.

E faccio pausa.

[secondo stacco]

Maigret esce di scena con Monsieur Charles, edito nel 1972 ma ambientato nel 1967 o ’68. Nel primo romanzo è quarantenne, qui è un cinquantaquattrenne quasi alle soglie della pensione: quattordici compleanni in quarant’anni di attività, miracoli della letteratura.

Esce di scena, spiega serenamente Simenon, perché la criminalità è cambiata, i tempi non sono più i suoi.

Giustissimo. Maigret dà il meglio di sé con delitti dalla dimensione famigliare, in case dalle portinerie che profumano di ragù cotti a lungo, muovendosi in ambienti reticenti o ipocriti, che sembran quasi reclamare il delitto. Può anche rivoltare un paese come un calzino, e lo fa, in più di un caso, ma non può certo appassionarsi alla grande criminalità organizzata. Una sua inchiesta non è tanto un quesito da risolvere, quanto un colpevole da capire. Una indagine di caratteri – ma Simenon parla di “anima” – della “verità umana” che nulla ha a che fare con rilievi scientifici all’epoca, del resto, molto modesti.

Ho detto “1967 o ’68” perché i riferimenti storici, nei Maigret, sono minimi: la visita ufficiale del re di Spagna, la chiusura delle Halles… Inoltre Maigret, come il suo autore, non prova interesse per la politica. Forse, nemmeno per la Storia.

Dov’era negli anni della Francia occupata? A Parigi, ci assicurano almeno due inchieste. E cosa provava? Cosa pensava? Non lo sappiamo. Non esplicitamente. (Va però detto che nel ’43 Simenon offre in asta il manoscritto di Pietro il Lettone a favore dei prigionieri di guerra francesi)

Persino nel più politico dei suoi casi, Maigret è solo, ignoriamo quale sia il colore del governo in carica. E se Maigret prova simpatia per l’incolpevole ministro che gli chiede aiuto, è per la comune appartenenza sociale a quel ceto provinciale non più contadino ma da poco tempo borghese. La più irrazionale, la meno nobile delle ragioni possibili: il vincolo di classe. E qui taccio: se avrò modo, riprenderò la questione su polizia, e cibo, accennata all’inizio.

[terzo stacco]

Maigret e De Vincenzi non sono detective privati, ma pubblici funzionari di Polizia.

E tuttavia Maigret, proprio come l’italiano De Vincenzi, ci piace perché rappresenta la Polizia – la Legge – così come dovrebbe essere: intelligente efficace e umana, cioè capace di compassione.

Maigret è umano – ma, come dice William Blake, “compassione ha volto umano, crudeltà ha cuore umano” –; è umano anche nella sua attenzione olfattiva al cibo, che è il cibo della vecchia Francia contadina. Ha un senso, ciò.

Perché, da Barcellona ad Atene passando per Marsiglia e l’Italia, poliziotti ed ex poliziotti si interessano al cibo? Ecco la mia teoria, in proposito. Gli autori che li hanno creati sono cresciuti in Paesi che hanno conosciuto, tutti, il fascismo; essi perciò vagheggiano società più giuste con rappresentanti della Legge migliori. Non ci sono bacchette magiche a disposizione, per cambiare un popolo e la società, ma non è forse, la cucina, una modesta forma di alchimia in grado di mutare la natura degli elementi? Così come i metalli, nel crogiuolo dell’alchimista, possono influenzare l’ordine del firmamento, non potrà allora anche il cuoco-detective, minuscolo alchimista, mutare non dico il passato, e neppure il mondo, non tutto il mondo, ma almeno il piccolo mondo intorno a sé, renderlo più conviviale, meno amaro, per il breve spazio di un pasto? Meno ingiusto, per il breve spazio di un’inchiesta?

In caso di domanda su quando è nato esattamente Maigret

Si conoscono quattro proto-Maigret: in L’amant sans nom compare un anonimo poliziotto che è già, fisicamente, il commissario; in Train de nuit compare un “commissario Maigret”, ma è La Maison de l’inquiètude, scritto a bordo dell’Ostrogoth nel 1929, che fornisce a Simenon l’ambiente per la sua falsa versione della nascita di Maigret al tavolo del caffè Le Pavillon nel porto di Delfzijl. E già il nome del locale, francese in terra fiamminga, dovrebbe destar sospetti.

Nel caso qualcuno chieda quanto Maigret ci ha influenzati come autori

Simenon e Maigret non sono tra i miei modelli coscienti, se non come effetto rebound, ma quello degli influssi è sempre un terreno accidentato. Inoltre in letteratura chiunque in buona fede può inventare la ruota ignorando che è già usata altrove. O don Isidro Parodi, che solve i casi dalla sua cella, è figlio del Vecchio nell’angolo? In base al meccanismo narrativo, sì. Ma fa un certo effetto pensare a Jorge Luis Borges in debito con la Baronessa Orczy…

*Intervento preparato in occasione della rassegna ‘Simenon 30 anni dopo’ ai Frigoriferi Milanesi, il 23 ottobre 2019

© 2019 Hans Tuzzi

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Nessuno rivede Itaca Hans Tuzzi

L’AUTORE – Hans Tuzzi è autore – oltre che di saggi sulla storia del libro e sul suo mercato antiquario, e del romanzo Vanagloria (2012) – dei celebri gialli ambientati a Milano che hanno come protagonista il commissario Melis: Il maestro della Testa sfondata (2002 e 2016), Perché Yellow non correrà (2005 e 2016), Il principe dei gigli (2005 e 2012), Casta Diva (2005 e 2013), Fuorché l’onore (2005 e 2017), La morte segue i magi (2009 e 2017), L’ora incerta fra il cane e il lupo (2010 e 2017), Un posto sbagliato per morire (2011), Un enigma del passato (2013 e 2017), La figlia più bella (2015), La belva nel labirinto (2017), La vita uccide in prosa (2018) e Polvere d’agosto (2019). È autore anche della trilogia dedicata all’agente segreto Neron Vukcic: Il Trio dell’arciduca (2014), Il sesto Faraone (2016) e Al vento dell’Oceano (2017). Tutti i suoi libri sono pubblicati da Bollati Boringhieri, che il 19 marzo porta in libreria anche il nuovo romanzo di Tuzzi, Nessuno rivede Itaca: un musicista sciupafemmine, Tommaso, nato nel 1966, riceve, poco dopo il suo cinquantesimo compleanno, un lascito composto da una scatola di foto e cartoline e da una chiavetta USB con un lungo messaggio di uno scrittore nato nel 1936 e morto tragicamente da poco: Massimo. Amico dei genitori di Tommaso, Massimo segnò alcuni snodi decisivi nella vita del ragazzo, e ora le due voci si intrecciano in un dialogo oltre il tempo e lo spazio dipanandosi, in un continuo slittare fra passato e presente, attraverso i più disparati e inattesi argomenti: come erano organizzati i bordelli per omosessuali a Venezia al tempo di Proust? Come musicare un idillio di Leopardi? Esistono case o luoghi “abitati” da spettri? Perché l’uomo ha un solo pene, simile in tutti gli esponenti della specie, mentre il primo lucertolone che incontri può offrire alla sua lucertola la scelta fra più peni diversi per forma e colore? And so on, fra gli anni sessanta della falsa euforia delle feste in Costa Azzurra e della Roma della Dolce Vita sino a una opaca Venezia ormai invasa dal turismo di massa, fra discussioni sull’arte, prestazioni di cavalli da corsa e raggelanti ricordi delle atrocità della guerra. Una meditazione, anche, su questa nostra attuale Europa, che da qualche parte deve pur esser venuta, e da qualche parte dovrà pur andare (a finire?). Per la seconda volta, dopo l’esordio con Vanagloria (2012), Tuzzi abbandona le vesti del giallista per una narrazione fuori dal genere, con una riflessione profonda su che cosa significhi vivere, su che cosa si è amato, su ciò che non ritornerà. Itaca è la giovinezza, appunto, che nessuno rivedrà più.

Fonte: www.illibraio.it