Margery Allingham e l’epoca d’oro della detective story

di Redazione Il Libraio | 26.09.2016

Il thriller esemplare? “Deve avere in sé la delicatezza e nello stesso tempo la precisione di un sonetto”. Dall'Inghilterra agli Usa, e ora anche in Italia, si riscopre Margery Allingham, "tra le regine del crimine inglesi"


Di lei J.K. Rowling ha detto: “Tra le regine del crimine inglesi, Margery Allingham è la mia preferita in assoluto”.

La riscoperta in tutto il mondo della Allingham ci riporta all’epoca d’oro della detective story. Autrice precoce e prolifica, ha firmato molti romanzi e racconti con Albert Campion, il suo detective seriale, protagonista inconfondibile della sua narrativa. Campion, aristocratico, patriota e professore, assistito da Lugg, fedelissima guardia del corpo di umili origini ma notevole acume, è il protagonista dei gialli della Allingham: è un investigatore speciale, frequentatore di salotti e bassifondi, chiamato a risolvere delitti e sventare complotti da un lato all’altro dell’Inghilterra.

Il premio del traditore (qui la trama), in libreria per Bollati Boringhieri, segna dunque – a cinquanta anni esatti dalla sue morte – l’atteso ritorno di una grande scrittrice, che l’Inghilterra e gli Usa hanno da poco riconsacrato come una delle regine del crimine.

Il romanzo in questione, nell’ambito della sua vasta produzione, ha un ritmo e una tensione narrativa perfetti, una sapiente combinazione di suspense tra la mostruosità e l’urgenza del complotto e la condizione umanamente fragile del protagonista. Eppure, fu scritto per frammenti, nel 1940, sotto i raid aerei della Seconda Guerra Mondiale. E sembra meritare – ancora più di altri suoi titoli – la definizione che lei stessa diede del thriller esemplare, che “deve avere in sé la delicatezza e nello stesso tempo la precisione di un sonetto”.

Ancora un’altra sua citazione, che evidenzia il rapporto con la scrittura di Margery Allingham: “Penso che un autore che non sappia controllare i suoi personaggi sia, proprio come una madre nei confronti dei propri figli, inadatto a occuparsene”.

Margery Allingham nacque a Ealing, Londra, nel 1904 in una famiglia amante della letteratura. Pubblicò il suo primo romanzo, Blackkerchief Dick, nel 1923 all’età di 19 anni. La sua prima detective story uscì a puntate sul Daily Express nel 1927, con il titolo The White Cottage Mystery. Il primo romanzo, The Crime at Black Dudley, venne pubblicato nel 1929: compare qui Albert Campion. La scrittrice è morta nel 1966, e dal 1988 è attiva la Margery Allingham Society.

Su ilLibraio.it, per gentile concessione dell’editore, l’incipit de Il premio del traditore

Il mormorio era indistinto. Strisciava nel reparto buio, e penetrava nelle orecchie dell’uomo disteso nella pozza di luce al capo opposto dello stanzone.
Era piacevole, il mormorio. Una corrente placida che scorreva rassicurante sotto la preoccupazione, sotto quell’ansia terrificante che gli stava conficcando nel diaframma dita gelide.
Cercò di concentrarsi su quel suono. Per fortuna adesso non era più indistinto. Si riconoscevano due voci, e quando riusciva ad afferrarle, le parole avevano un significato. Era un buon segno. Faceva ben sperare.
Magari di lì a poco le parole avrebbero cominciato a connettersi e allora, grazie a Dio, lui avrebbe saputo qualcosa e quella paura terribile sarebbe svanita.
Dal suo letto l’uomo riusciva a vedere solo uno spicchio di pavimento lucido, una fetta di letto vuoto e rifatto con cura, un alto finestrone schermato che in cima spariva nell’oscurità più totale, laddove la luce della lampada con il paralume posta sopra la sua testa non aveva la forza di arrivare. Nulla di tutto ciò gli era familiare. Non era nemmeno certo di essere in un ospedale. Anche questo faceva parte della situazione. Sapeva che cosa fossero gli ospedali; il fatto gli era di conforto. Erano imponenti edifici grigi, resi trucemente allegri da giganteschi manifesti che annunciavano gli obblighi della scarificazione contro il vaiolo. La capacità di ricordare quei cartelloni lo rallegrò. Era ancora in grado di leggere; ne era certo. A volte capitava che non lo si fosse. A volte in quelle condizioni si riuscivano a capire solo le parole dette, non quelle scritte. Strano ricordare adesso questo dettaglio. La sua mente era abbastanza lucida, fin dove arrivava… fin dove arrivava.
Si concentrò sul mormorio. Veniva da molto lontano. Dovevano essere appena fuori dalla porta che c’era più avanti, nel buio. La donna doveva essere un’infermiera, ovvio. La scoperta lo rese stoltamente felice. Stava facendo progressi. Da un momento all’altro gli sarebbero balenate in mente altre cose ovvie come quella.
Non aveva idea di chi potesse essere l’uomo, però il suo borbottio aveva un suono umano e amichevole. Si dispose all’ascolto.
«Non sarò io a interrogarlo, sa?» Accolse con blando interesse le parole dell’uomo.
«Vorrei anche vedere». La donna aveva un tono acido. «È una faccenda molto seria. Mi stupisco che ce lo abbiano lasciato qui da solo. Non è bello da parte loro».
«Non c’è motivo di preoccuparsi, signorina». Il borbottio suonò afflitto. «Se mi avessero dato una sterlina per ognuno di quelli di cui mi sono occupato, a quest’ora sarei ricco. Vedrà che starà tranquillo. Probabilmente non ricorderà neppure che cosa è successo – o dirà di non ricordare, finché non avrà parlato con un avvocato. Oggigiorno fanno così, sono pronti a tutto».
L’uomo sul letto rimase immobile. Il mormorio aveva cessato di essere rassicurante. Dimenticò di rallegrarsi del fatto che le parole gli giungessero coerenti. Ascoltò avidamente.
«Lo impiccheranno, vero?» disse l’infermiera.
«Sarà per forza così, signorina». L’uomo era al tempo stesso dispiaciuto e fermo. «Era uno di noi, capisce, quindi non c’è modo che la faccia franca. Se un uomo ammazza un poliziotto la forca gli tocca di sicuro. È una precauzione necessaria per la sicurezza dei cittadini» aggiunse, non senza una certa soddisfazione.
«E questo tizio aveva tutto quel denaro addosso. Ci deve un bel po’ di spiegazioni anche per questo».
«Posso solo dire che è davvero spiacevole». L’infermiera si agitò un po’ dopo aver parlato e l’uomo disteso sul letto pensò che stesse per entrare nello stanzone. Chiuse gli occhi e si irrigidì. Non si sentirono però passi, e di lì a poco l’infermiera riprese a parlare.
«Sembra così strano qui, senza i pazienti» disse e rise in modo leggermente forzato, come se si fosse resa conto di quanto fossero spettrali i vasti reparti vuoti. «Il personale è ridotto all’osso, ci hanno lasciato qui perché ci occupassimo di emergenze come questa. Siamo l’unico ospedale della città titolato a entrare in azione per ogni evenienza. Il personale e i pazienti sono stati evacuati. Non so come se la stiano passando tutti quelli che sono in campagna, questo è certo».
«La mia signora e i bambini sono in campagna» disse inaspettatamente il poliziotto. «A me restano pochi soldi e lei si sente sola…» La voce gli morì in un sussurro confidenziale e all’altro capo del reparto l’uomo nel letto riaprì gli occhi.
Ammazzare un poliziotto. Per quanto confusa potesse essere la sua mente, capiva l’enormità di una cosa simile. Era una faccenda seria. Così seria da mettergli i sudori addosso.
Aveva avuto incubi di questo genere e aveva conosciuto dei poliziotti. E a pensarci bene gli pareva che i poliziotti gli fossero molto familiari e di avere avuto simpatia per loro.
Cosa diavolo gli era capitato? L’agente lì fuori aveva semplicemente detto che era possibile che non ricordasse. Ebbene, in effetti non ricordava proprio nulla di nulla. E questa era la causa dell’ansia, almeno in parte. Non ricordava, non ricordava e basta. C’era solo quella preoccupazione segreta, quell’ansia divorante, tormentosa, terrificante, che travalicava qualsiasi considerazione relativa alla propria incolumità personale; l’uomo aveva un vago ricordo di essere responsabile del quindici. Quindici. Non aveva la minima idea del significato di quel numero. Quella parte era svaporata del tutto. Però era una parte urgente e vitale, ne era certo. Torreggiava sul resto delle sue difficoltà, un gigantesco oscuro presagio di disastro.
E adesso, come se non bastasse, sapeva che l’avrebbero impiccato per aver ucciso un poliziotto. E magari lo aveva ucciso davvero; era lì il guaio. E in ogni caso quel poliziotto stolto parlava all’infermiera come se la conclusione fosse scontata. Si aspettavano che chiamasse un avvocato, no? E sai quante possibilità aveva di riuscire ad aiutare un avvocato a preparare il caso, lui che non ricordava neppure il proprio nome!
Mosso dall’indignazione e dalla strana monolitica determinazione tipica di quello stato mentale, scese dal letto.
Si mosse con grande velocità e naturalezza, ancora parzialmente avvolto nel confortevole scialle della semincoscienza, senza fare alcun rumore.
Scelse la porta più vicina, perché perfino lui si rendeva conto che sarebbe stato prudente evitare i due personaggi mormoranti, e a piedi scalzi avanzò silenzioso sulle piastrelle del corridoio. Questo era ampio, pulito, e tuttavia male illuminato perché le lampadine erano pesantemente schermate e proiettavano singoli aloni di luce sul pavimento lucido.
Fu in una di queste pozze tonde di luce che vide la forcina per capelli. Si chinò per raccoglierla, meccanicamente, e lo atterrì l’ondata di dolore sordo che in quel momento lo travolse. Era un bel guaio. Come sarebbe andata a finire? Adesso svengo, pensò, e mi acchiapperanno e mi impiccheranno per aver aggredito un poliziotto. Dio Onnipotente, che situazione!
Le piastrelle, gelide sotto i piedi nudi, lo ridestarono un poco, e per la prima volta si rese conto di non essere vestito, l’unico indumento che aveva addosso era il ruvido pigiama ospedaliero.
Diede un’occhiata alla fila di porte scintillanti sulla sua sinistra. In qualsiasi momento se ne sarebbe potuta aprire una, e ne sarebbe sbucata fuori l’Autorità. E come se non bastasse sarebbe stata un’Autorità orrenda, arrogante, vestita in modo appropriato e ostile.
Un vero incubo. L’ipotesi che fosse un brutto sogno gli parve possibile e vi si aggrappò con gratitudine.
La convinzione lo sgravò di buona parte delle preoccupazioni. Tanto per cominciare, non era più così preoccupante che il suo cervello vacillasse.
Ciò nonostante, perfino nei sogni certi problemi sono incalzanti ed era evidente che gli erano assolutamente necessari dei vestiti, se voleva avere uno straccio di possibilità di cavarsela al cospetto dell’Autorità acquattata dietro le porte lucide.
Si guardò attorno ansiosamente. Le pareti erano spoglie come un piatto vuoto, eccezion fatta per i secchi antincendio, e la nicchia sotto quella fila rosso sangue gli sfuggì finché non le arrivò proprio addosso, e la visione della cassetta di vetro con i bordi rossi incastonata nella nicchia lo immobilizzò di colpo. Si fermò folgorato davanti all’armadietto. All’interno c’era il solito equipaggiamento. Sul fondo era appesa una cerata nera e da sotto spuntavano le dita di un paio di stivaloni alti fino alla coscia, mentre la manichetta era avvolta insieme al tutto in ordinati festoni araldici.
L’uomo in pigiama ignorò l’invito stampato sulla targhetta smaltata che gli chiedeva di rompere il vetro in caso di necessità. Si concentrò invece sul buco della serratura nel legno liscio e rosso. Quando sollevò la mano per toccarla riscoprì la forcina e si sentì pervadere dal tepore della soddisfazione. Allora era uno di quei sogni misericordiosi in cui tutto finisce bene – sì insomma, ammesso che il trucco funzionasse.
Non ebbe il tempo per riflettere sulle proprie abilità, in un certo senso peculiari. La forcina piegata fece scattare con facilità la serratura, come se avesse compiuto quell’operazione centinaia di volte. L’assenza dei pantaloni di cerata lo preoccupava, ma gli stivali erano magnifici. Gli risalivano fin sopra le cosce e l’impermeabile aveva una cintura che si levava e poteva essere infilata nei passanti degli stivali. Il cappello da lupo di mare che uscì da dentro la cerata gli parve ridicolo, ma se lo mise in testa e con grande sollievo abbottonò l’impermeabile fin sotto il mento.
Non fece caso all’incongruità del travestimento. Si stava ancora muovendo con l’immediatezza dettata dall’emergenza. Alle spalle aveva un pericolo e davanti a sé una cosa tremendamente importante. Si stava allontanando dal primo e avvicinando alla seconda. Il fatto sembrava al tempo stesso ragionevole ed elementare.
Le porte rimanevano ancora chiuse. Non si sentivano rumori né correnti d’aria. Il corridoio era vuoto e silenzioso, ma comunque respirava. Era vivo. L’uomo in pigiama non si faceva illusioni in proposito. Dovunque fosse, chiunque fosse, un ubriaco, un pazzo, o uno che stava sognando, era pur sempre desto a sufficienza per distinguere un edificio vivo da uno vuoto. Di sicuro lì dentro c’era della gente.
Lo sportello dell’armadietto, che non era stato richiuso con attenzione, si spalancò e urtò l’uomo facendolo sobbalzare. Non andava bene. Lo sportello aperto lo avrebbe tradito all’istante. Se l’infermiera dalla divisa frusciante avesse messo la testa fuori dal reparto, il suo sguardo sarebbe stato catturato immediatamente da quel vetro spalancato. Lo richiuse, mettendoci molta più forza di quanta non volesse. Il vetro sottile andò in mille pezzi. Il delicato tintinnio di cocci sulle piastrelle sembrò quasi una musica, ma la campana automatica sopra l’armadietto, che non aveva notato, fu tutt’altra storia.
La campana gli urlò contro, facendogli vibrare tutti i nervi che aveva in corpo, fino alla radice dei capelli. La campana ululò. Impazzì. Strillò, tremolando isterica nella notte, e da ogni parte, sopra di lui, sotto di lui, altre campane le fecero eco in una mostruosa cacofonia d’allarme.

© 2016 Bollati Boringhieri editore, Torino. Traduzione di Marina Morpurgo

Fonte: www.illibraio.it